giovedì 22 novembre 2012
Hic @ nunc
Oggi inizio la mia attività di volontariato per sostenere alcune famiglie che mi erano state presentate - da chi ha domandato il mio aiuto in un settore molto specifico - come economicamente "disastrate".
Poi qualche settimana fa, nel corso della riunione dell'organizzazione che illustrava le necessità particolari famiglia per famiglia, mi sono resa conto che quelle persone definite disastrate si trovano in una situazione economica - almeno per quanto riguarda le entrate - di gran, gran, gran lunga superiore alla mia. Che non è che ci voglia poi tanto. E anche per quanto riguarda le uscite, tenuto conto che godono non solo di agevolazioni comunali (che alla fine spetterebbero anche a me, se solo le richiedessi), ma anche della pietà benpensante del paese, che per sentirsi tutti un po' meno in colpa per le enne proprietà che possiedono - ma lasciano sfitte e fredde fino a portarsele nella tomba - regalano vestiti e scarpe mai indossati ("sai quando ti prende così la voglia di comprare qualcosa e non sai cosa e ti ritrovi con roba che non metteresti mai?", "Veramente no", "Ah, be', vabbè..."), donano cancelleria e giocattoli e raccolgono la colletta alimentare. Insomma, tutto il possibile per permettere loro di mettere qualcosa da parte per il futuro.
Ora, a parte l'invidia - di cui mi vergogno, ma che onestamente provo - nei confronti di questi disastrati "noti", che vengono sostenuti in tutto e per tutto, perché vanno sbandierando i loro problemi, mentre io per "dignità" e vergogna li tengo per me, un altro pensiero viene lentamente a galla e si fa sempre più nitido:
ma se l'essere o meno in una situazione economica disastrata non fosse un dato oggettivo, ma qualcosa di relativo, relativo a come ci si sente dentro?
Perché chiunque, chiunque anche tu che stai leggendo adesso, chiunque a domanda "Ma tu a soldi come stai messo?" risponderebbe "Uh, non me ne parlare. Come sto messo? Tiro a campare!".
Da un anno a questa parte, e cioè da quando tutti, ma veramente tutti, hanno iniziato a confessare apertamente di sentire "la crisi" e a far girare più alta la voce delle difficoltà, dei "sacrifici", dell'impossibilità generale di "arrivare a fine mese", io ho ascoltato - ascoltatrice occasionale di parole al bar, in fila alla coop tra le comari di un paesino, che "non brillano certo in iniziativa" -, e ho raccolto questi commenti; li ho raccolti nella testa e inconsapevolmente elaborati, per poi ritrovarmi a usarli come filtro nell'osservazione dei comportamenti effettivi e delle marchiane discrepanze tra quanto sostenuto a parole e quanto affermato coi fatti.
E la conclusione, gente - anzi, GGGENTE - è che vivete tutti al di sopra delle vostre possibilità. Tutti! Anch'io, che prendo due caffè al bar ogni giorno e non me lo posso permettere, ché in un mese fanno 60 euro e io non ho telefono, adsl, sky, perché non posso spendere quel fisso mensile; e non vado dall'estetista per la ceretta, non mi faccio le unghie, non compro creme, non faccio iniezioni anticellulite, non vado in palestra né dal parrucchiere né in vacanza; ho gli stessi vestiti da dieci anni - alcuni dal liceo: fanno quasi venti anni! -, non compro abiti o scarpe a mio figlio, che veste quelli smessi dal suo amico che, per fortuna, cresce con la velocità della pianta di fagioli, o quelli che gli confeziona mia madre a mano. Eppure spendo 60 euro al mese di caffè del bar.
Allora adesso vi chiedo:
siete davvero così sicuri di stare facendo sacrifici pesantissimi, di essere ridotti all'osso eccetera?
Qualcuno mi starà mandando a cagare, altri proveranno pena, altri ancora penseranno ch'io stia mentendo o, comunque, esagerando. I più coglioni diranno che se tutti facessero come me, l'economia sarebbe già morta, ma io scommetto che la maggior parte sta saltando sulla sedia, in preda a un malessere indefinito, con il pensiero fisso che "io sto facendo del mio meglio, è vero che potrei ancora tagliare, ma non ci si può privare di tutto, sennò che cazzo di vita è?".
E allora è esattamente a voi che mi rivolgo: se le cose che non avete tagliato sono davvero le cose a cui voi più tenete, e vi siete accorti che ancora avete - e fate - le cose a cui più tenete, ma si può sapere perché continuate a lamentarvi e non riuscite a essere felici? Essere felici per ciò che avete ADESSO, e non infelici per quello che temete che forse chissà se andiamo avanti così non avrete tra un mese? Tanto tra un mese finisce il mondo!
Comunque io adesso esco: vado a prendermi un caffè.
lunedì 12 novembre 2012
La Vita è un Viaggio
La vita è un viaggio: dimmi con che mezzo viaggi e ti dirò chi sei.
Tipo piedi: il tipo
leggenda. Sono due le correnti di pensiero sul tipo piedi: una sostiene che
si sia estinto, l’altra che non sia mai esistito. Chissà i futuri passi della
scienza non permetteranno un giorno di far luce su questo mistero.
Tipo auto: il tipo
assertivo. Il tipo auto vive nell’illusione del controllo (“Il passato è
storia, il futuro è mistero ma oggi è un dono e per questo si chiama presente”,
gli ricorderebbe amorevolmente il Maestro Oogway). Crede di avere il potere di
decidere della sua vita, del suo tempo e del suo spazio: pensa di potersi
fermare quando vuole e poi non si ferma finché non è arrivato, vuole godere
della solitudine dell’abitacolo e poi parla – e urla – tra sé e sé, rivolgendo
parole inascoltate allo speaker radiofonico e agli altri automobilisti; dice
“scelgo di spendere un po’ di più, ma ne vale la pena” e poi maledice l’aumento
del pedaggio, le accise, le pompe. Si consola “se devo andarmi a schiantare,
almeno sarà stato solo per colpa mia”, e si ritrova attaccato al guard-rail in
seguito ad un attacco di dissenteria improvvisa dei corvi delle risaie, che
hanno fatto andare uscire di strada un tir, che ha perso il rimorchio carico di
olio extravergine di oliva, che si è rovesciato sulla carreggiata esattamente
davanti alle sue gomme.
Tipo
pullman: è il tipo Gruppo-Vacanze-Piemonte, alias Fantocci, vadi. Non vuole prendersi la responsabilità di condursi
attivamente alla meta e non sopporta la solitudine. Decide dunque di partire
con un gruppo di conoscenti superficiali - e conoscenti superficiali dei
conoscenti superficiali – affrontando coraggiosamente il rischio di tornare a
casa con un set di pentole in terracotta del Mar Morto, pensate appositamente
per la fonduta di ibis azzurro del Titicaca, cacciato con la frombola da un ex
assicuratore inglese, che ha scelto di girare il mondo a piedi scalzi, vivendo
solo del ricavato della vendita delle sue ceramiche tecniche. La frombola
ovviamente è in omaggio. Ritrovo alle 4:00 di un piovoso mattino di novembre,
ritorno a mezzanotte, pranzo a sacco, cena a base di fonduta di ibis azzurro
del lago Titicaca, cucinata a fuoco lento dal rappresentante di pentole/
cacciatore di ibis nelle pentole di terracotta del Mar Morto. E posate di
plastica, quelle nel sacchettino trasparente, col tovagliolo che si straccia
solo con lo sguardo (lo sguardo dell’ibis morente) . Tempo medio per visitare
ciascuno dei quattrocentosettantadue luoghi d’interesse previsti dal volantino:
settantatré secondi ad attrazione.
Tipo
autostop: tipo non pervenuto. Pare
non arrivino mai alla meta, pare non ritornino mai a casa. E comunque sarebbe
il tipo nostalgico.
Tipo
motocicletta A: il sognatore part-time, finto alternativo, sempre alla moda. Vede
la motocicletta come una fuga,
prova un profondo desiderio di libertà, la voglia di uscire dagli schemi, il
contatto con la strada, ma solo se il cima è secco-ma-non-troppo, se il sole è
caldo-ma-non-di-taglio, se l'aria è fresca-ma-non-tesa, se è un mese-senza-la-erre
e possibilmente pari, se si può mettere tutta la tuta di pelle completa con gli
stivali rigorosamente abbinati, se ha pianificato il passo da svalicare da
almeno tre settimane e quattro giorni, verificando che il maggior numero di
altri tipi moto A abbia preso la sua medesima decisione, per organizzare una
sosta finto casuale tutti insieme nei pressi del medesimo punto (possibilmente
l’unico per nulla panoramico, ma da dove chiunque passi possa ammirare la
motocicletta pulitissima, lucida e luccicante, dello stesso colore dalla tuta,
del casco e dello zainetto).
Tipo moto B: l’alternativo
finto-vero, l’orso delle caverne, l’asociale per antonomasia. Odia tutti
gli altri tipi, in particolar modo i tipi moto A. Si sposta sulle due ruote anche per andare dalla mamma
a farsi fare il bucato, ma sempre con l’espressione truce, ché nessuno deve
sapere che va a trovare la mamma. Nessuno deve sapere che ha una mamma. Nessuno
deve sapere che si lava. La moto è sempre visibilmente zozza – passa i pomeriggi
in box a spalmarla di grasso, affinché le polveri sottili vi si appiccichino
meglio – e indossa capi tecnici anche quando va dormire, ma solo spaiati e
dagli abbinamenti di colore assolutamente inguardabili. Grugnisce da sotto il
casco il suo astio per l’umanità, ostenta come una bandiera la sua misantropia
e si accerta costantemente che tutti – ma proprio tutti – si accorgano che lui
si isola, si allontana, sta in disparte, li schifa: “Io sono diverso da te:
guardami!” dice la sua arcata sopraccigliare, mentre con un cenno del capo fa
“Cazzo hai da guardare?”.
Tipo Treno: il tipo treno è
lo sfigato per eccellenza. Soggetto ai tagli dell’economia (in inverno il
riscaldamento non funziona e i finestrini non si chiudono, in estate l’aria
condizionata non va e i finestrini non si aprono); alla repulsione - che coinvolge financo i
corpi sottili - nei confronti del tessuto di rivestimento dei sedili, che è
“antibatterico” solo perché quelle non bene identificate macchie della
copertura “antimacchia” - che per
comodità esce già macchiata da impostazioni di fabbrica -, fa schifo a
qualunque forma di vita, anche le più semplici: monocellulari, parassite e
distruttive); ai malumori degli impiegati dell’intera rete ferroviaria (che
scioperano di regione in regione ogni fine settimana perché gli gira
dannatamente per essere stati messi di turno venerdì sera, sabato e domenica, e
poi scioperano quelli del lunedì, perché “quegli stronzi di ieri non hanno
fatto un cazzo, perché oggi io dovrei lavorare?”); al divieto di fare pipì
durante la sosta in stazione nonostante lo sappiano tutti, che la pipì scappa proprio durante la sosta
in stazione; all’alitosi del tizio strambo che gli si mette accanto,
all’abitudine di certi stranieri di levarsi le scarpe, a quelli che si portano
il chihuahua nella tasca dell’impermeabile (o sono solo felici di vederti).
- Va bene, ma il valium per il decollo lo voglio lo
stesso.
mercoledì 31 ottobre 2012
Hollow in.
Halloween può non essere la festa consumistica, che tanti per comodità hanno deciso debba essere.
Il fatto che molti adorino usarla come scusa per annichilire i chiassosi pargoli, inebetendoli con fiumi di zuccheri, o per fare scherzi telefonici ai vecchi bulli delle medie – e non solo -, camuffando la voce in un moto egocentrico, convinti di essere assolutamente riconoscibili nonostante siano trascorsi diciotto anni e una tempesta ormonale , o ancora per violentare prostitute celati dietro la maschera di Topolino – o di Berlusconi -, o solo per scagliarsi contro l’importazione di usi e costumi d’oltre oceano, ecco dicevo nonostante questa festa si presti - esattamente come tutti gli altri momenti della vita umana – ad essere frainteso e piegato ad un significato innaturale e improprio, la notte di Halloween ha un suo motivo d’essere ben più profondo e radicato nella consapevolezza umana. Perché la notte di Halloween è il momento dell’anno in cui le palpebre pesanti che separano il mondo dei vivi da quello dei morti si fanno più sottili e si schiudono appena, consentendo a chi vuole – a chi cerca, a chi rischia, a chi non ha paura – di intravedere chi sta di là.
E vice versa, eh. Non è che i defunti stiano tutto il tempo a farsi gli affari nostri, ben inteso, ché hanno il loro bel daffare, robe che quando erano di qua nemmeno si immaginavano: decisioni da prendere, strade da imboccare, situazioni da affrontare. Ma la notte di Halloween anche loro – quelli di loro che vogliono, che cercano, che rischiano, che non hanno paura -, possono tornare a vederci, da sotto a quelle palpebre appena socchiuse.
Così questa sera sarò fuori casa: andrò ad una celebrazione per Halloween, cenerò con chi in questo momento mi è più caro (tranne uno, in realtà), assieme ad un gruppo di amici, ognuno dei quali porterà la memoria di una persona cara che non c’è più; e ognuno ascolterà la memoria dell’altro e questa memoria verrà condivisa e troverà eco e si farà la sua strada per perdurare e chissà, magari da questa eco nascerà un riverbero, che la porterà al di là della grande palpebra, nel cuore da cui è nata.
Sì, questa sera sarò fuori casa: spero un passo oltre la palpebra un po’ sollevata. Questa sera sarò fuori casa e racconterò di te, nonna: del grande amore di una bambina, della sensazione dei tuoi abbracci, che cambiava col tempo a mano a mano che io crescevo e tu rimpicciolivi; della consapevolezza forte di essere il proseguimento della tua storia, di quelle cose che ci hanno sempre accomunato – il doppio mento, le spalle ampie, le gambe bellissime e una golosità irrefrenabile – e di quella lezione di vita che mi hai saputo dare inconsapevolmente, senza purtroppo essere mai riuscita a farla tua.
Ecco, questa sera sarò fuori casa: perciò non venite a scassare la minchia con le caramelle.
Ciao, nonna.
E vice versa, eh. Non è che i defunti stiano tutto il tempo a farsi gli affari nostri, ben inteso, ché hanno il loro bel daffare, robe che quando erano di qua nemmeno si immaginavano: decisioni da prendere, strade da imboccare, situazioni da affrontare. Ma la notte di Halloween anche loro – quelli di loro che vogliono, che cercano, che rischiano, che non hanno paura -, possono tornare a vederci, da sotto a quelle palpebre appena socchiuse.
Così questa sera sarò fuori casa: andrò ad una celebrazione per Halloween, cenerò con chi in questo momento mi è più caro (tranne uno, in realtà), assieme ad un gruppo di amici, ognuno dei quali porterà la memoria di una persona cara che non c’è più; e ognuno ascolterà la memoria dell’altro e questa memoria verrà condivisa e troverà eco e si farà la sua strada per perdurare e chissà, magari da questa eco nascerà un riverbero, che la porterà al di là della grande palpebra, nel cuore da cui è nata.
Sì, questa sera sarò fuori casa: spero un passo oltre la palpebra un po’ sollevata. Questa sera sarò fuori casa e racconterò di te, nonna: del grande amore di una bambina, della sensazione dei tuoi abbracci, che cambiava col tempo a mano a mano che io crescevo e tu rimpicciolivi; della consapevolezza forte di essere il proseguimento della tua storia, di quelle cose che ci hanno sempre accomunato – il doppio mento, le spalle ampie, le gambe bellissime e una golosità irrefrenabile – e di quella lezione di vita che mi hai saputo dare inconsapevolmente, senza purtroppo essere mai riuscita a farla tua.
Ecco, questa sera sarò fuori casa: perciò non venite a scassare la minchia con le caramelle.
Ciao, nonna.
martedì 16 ottobre 2012
Meglio Marilyn
Ieri sera ho visto lo spot di Brad Pitt per Chanel n°5: abito elegante, ma trasandato (una mise che ha l'unico scopo di trasmettere il concetto che "sono venuto a girare questa pubblicità appena in tempo, me n'ero proprio scordato, Angelina non ha nemmeno potuto stirare e comunque stavo chiavando"), chioma folta e lunga q.b. (atta a far sentire il quarantenne comune una merda lspelacchiata perché, si sa, il follicolo maschile nei più ad una certa età viene meno), uso sapiente del primo piano alternato al mezzo busto e alla figura intera (come a ripetere quel geniale "E io amo te, cittadino qualunque"), il tutto condito in un bianco e nero su sfondo grigio e completamente vuoto, che agevola non poco l'effetto "io esisto al di là del tempo e dello spazio".
Notevole. Davvero. Onestamente: avrebbe potuto essere roba da strizzare gli slip alla fine dei 30 secondi, se... Se non lo avessero fatto parlare, cristo!
Ma che cazzo dice? Ma cosa si è fumato? Ma che minchia va blaterando? E soprattutto, ma recita davvero una merda! Ma non si possono rovinare così i sogni erotici di migliaia di donne: è un crimine! E se non lo è, dovrebbe esserlo. Che fine ha fatto il doppiatore? Perché non l'avete doppiato? Non mi puoi sbattere così davanti al muso che la cosa più sensuale di Brad Pitt, alla fine, è il doppiatore.
È tutta una manovra maschile per farci vedere che l'uomo perfetto non esiste? Ma lo sappiamo già, che non esiste, che bisogno c'era di smontarceli così tutti, uno dopo l'altro? Prima George Clooney, che parla un italiano che farebbe smontare una ninfomane in astinenza; poi Antonio Banderas, che puccia di nascosto il cornetto nel cioccolato "tanto non mi vede nessuno", e la prima cosa che ti fa venire in mente è Bart, che ficca le dita nella marmellata e poi dice "non sono stato io"; e ora pure Brad Pitt, che boffonchia parole senza senso!
Quando, dio, era così facile:
stai facendo Chanel n°5? E allora, cazzo, ti metti nudo su un letto, che guardi fisso in macchina e non ce lo devi neppure dire, perché tanto va da sé, che vuoi che te ne mettiamo due gocce addosso!
mercoledì 5 settembre 2012
Matrimoni gai.
A guardarla da un punto di vista più ampio e meno contingente, la lotta a favore delle nozze tra omosessuali mi ricorda troppo certo femminismo che, al fine di garantire pari diritti per uomini e donne, ambiva a trasformare le donne in uomini.
Il matrimonio, signori e signore, è solo ed esclusivamente un attestato di proprietà. E adesso non fate gli scandalizzati: rinfoderate il vostro romanticismo e le vostre cinquanta sfumature, ché nulla hanno a che vedere con il contratto matrimoniale. Sì, perché è esattamente così che sia chiama, "contratto", o anche e peggio ancora "istituzione": solida, marmorea, quadrata, ingombrante, anonima e brutta, come un edificio fascista, è l'istituzione del matrimonio. E se provate a leggerla con la voce narrante di Fantozzi quando dice "La corazzata Potemkin", rende ancora più l'idea. Nessuno si sposa per amore e chi sostiene di farlo mente - a sé stesso, prima di tutto-, perché per amore si sta con una persona punto, mentre organizzare una cerimonia pubblica, acquistare abiti, offrire portate succulenti, aspettarsi di ricevere doni in cambio, non è amore per nulla: è affermazione di dominio, una comunicazione chiara ed inequivocabile per cui "lei è mia" e "lui è mio" e se lo metto per iscritto, ci metto sopra un bel timbro e innaffio il tutto con Champagne e pubblicazioni in rete, mi sento sicuro di aver comunicato questo possesso a tutti, ma proprio a tutti. Anche a lui e a lei, così posso finalmente stare tranquillo per tutta la vita, perché se lui o lei osa rescindere questo contratto, io posso per legge fargli il culo.
Ed è proprio per questo che tanti matrimoni falliscono, perché sono innaturali: vincolano la libertà degli individui e gli individui bramano la libertà, che è anche solo libertà di scegliere "io scelgo di stare con te e vorrei che fosse per tutta la vita, ma lo scelgo io, lo scegli tu, lo scegliamo insieme e non ce lo impone nessuno, soprattutto non ce lo imponiamo noi stessi". Ed è per questo che alcuni matrimoni funzionano: perché ci sono persone che bramano essere possedute, perché hanno il terrore di essere liberi - e soli.
E allora io dico, carissimi amici omosessuali, perché sprecare tempo ed energie per conquistare un diritto che in realtà è solo l'ennesimo dovere? Perché buttare via le forze per assicurarsi un altro ceppo, anziché concentrarvi sul semplice riconoscimento ad esistere? Perché porca di una troia è questo che non vi viene riconosciuto: non avete diritto ad esistere! Il matrimonio non è che una distrazione messa lì apposta sul vostro cammino per farvi smarrire la strada principale, e se ve lo dovessero concedere, oltre ad un modo per tenervi sotto controllo burocratico - schedati, marchiati, numerati -, sarebbe solo una caramella all'aceto.
Secondo me meritate di più. Come lo meritiamo tutti.
Il matrimonio, signori e signore, è solo ed esclusivamente un attestato di proprietà. E adesso non fate gli scandalizzati: rinfoderate il vostro romanticismo e le vostre cinquanta sfumature, ché nulla hanno a che vedere con il contratto matrimoniale. Sì, perché è esattamente così che sia chiama, "contratto", o anche e peggio ancora "istituzione": solida, marmorea, quadrata, ingombrante, anonima e brutta, come un edificio fascista, è l'istituzione del matrimonio. E se provate a leggerla con la voce narrante di Fantozzi quando dice "La corazzata Potemkin", rende ancora più l'idea. Nessuno si sposa per amore e chi sostiene di farlo mente - a sé stesso, prima di tutto-, perché per amore si sta con una persona punto, mentre organizzare una cerimonia pubblica, acquistare abiti, offrire portate succulenti, aspettarsi di ricevere doni in cambio, non è amore per nulla: è affermazione di dominio, una comunicazione chiara ed inequivocabile per cui "lei è mia" e "lui è mio" e se lo metto per iscritto, ci metto sopra un bel timbro e innaffio il tutto con Champagne e pubblicazioni in rete, mi sento sicuro di aver comunicato questo possesso a tutti, ma proprio a tutti. Anche a lui e a lei, così posso finalmente stare tranquillo per tutta la vita, perché se lui o lei osa rescindere questo contratto, io posso per legge fargli il culo.
Ed è proprio per questo che tanti matrimoni falliscono, perché sono innaturali: vincolano la libertà degli individui e gli individui bramano la libertà, che è anche solo libertà di scegliere "io scelgo di stare con te e vorrei che fosse per tutta la vita, ma lo scelgo io, lo scegli tu, lo scegliamo insieme e non ce lo impone nessuno, soprattutto non ce lo imponiamo noi stessi". Ed è per questo che alcuni matrimoni funzionano: perché ci sono persone che bramano essere possedute, perché hanno il terrore di essere liberi - e soli.
E allora io dico, carissimi amici omosessuali, perché sprecare tempo ed energie per conquistare un diritto che in realtà è solo l'ennesimo dovere? Perché buttare via le forze per assicurarsi un altro ceppo, anziché concentrarvi sul semplice riconoscimento ad esistere? Perché porca di una troia è questo che non vi viene riconosciuto: non avete diritto ad esistere! Il matrimonio non è che una distrazione messa lì apposta sul vostro cammino per farvi smarrire la strada principale, e se ve lo dovessero concedere, oltre ad un modo per tenervi sotto controllo burocratico - schedati, marchiati, numerati -, sarebbe solo una caramella all'aceto.
Secondo me meritate di più. Come lo meritiamo tutti.
lunedì 3 settembre 2012
Amiciamici, amici un cazzo.
Trovo che le relazioni tra gli esseri umani siano sempre più sbilanciate: c'è un'eco via via più ampia del disagio interiore dell'individuo, che si riflette in un crescente disequilibrio tra le parti, e va amplificandosi per l'utilizzo di network quali twitter, google+, facebook eccetera, sia per la natura intrinseca degli stessi, che per il modo in cui ad esse ci accostiamo (d'altronde gli ideatori di questi mezzi di comunicazione sono forse tra i primi ad accusare un forte disagio e le loro creature telematiche non sono che un tentativo di cura, partorito da un malato anziché da un medico). Spiego.
Per la maggior parte delle persone i rapporti umani soddisfano un bisogno di riconoscimento (sentirsi parte di un gruppo, essere apprezzati, ammirati, invidiati, compresi, appoggiati, desiderati, indispensabili, unici...) che è impossibile da soddisfare, ma non intrinsecamente, bensì perché se ne cerca soddisfazione negli altri: io mi sento vuota, incompleta, zoppa e cerco un appoggio all'esterno, nella persona che scelgo di aver accanto perché mi sembra che sia più stabile di me o che abbia le parti che a me mancano; ma a sua volta anche quella persona sta cercando un sostegno, anche solo uno specchio che gli rimandi un'immagine di sé che lui vorrebbe, ma che da solo non riesce ad avere, e così si crea un sistema di puntelli che diventa una massa tremolante fatta tutta di cunei, in cui se solo uno si sposta, crolla tutto. Così non solo ci impediamo di cercare bene e accorgerci che tutto quello che cerchiamo ce l'abbiamo già dentro, ma ci inventiamo le convenzioni sociali che ci proiettano irrimediabilmente verso l'esterno, e la morale comune per cui questo non si fa e quello non si dice, onde evitare che qualche cuneo si allontani e tutta l'impalcatura crolli, lasciandoci con le chiappe grattugiate sull'asfalto. Ed è anche il motivo per cui facciamo di tutto per buttare a terra quei pochi che stanno su da soli e ci osservano senza fare niente, perché ci sembra che non siano d'aiuto alla nostra struttura osteoporosica (mi sovviene una bella frase: "il chiodo che sporge viene preso a martellate", non ricordo dove l'ho letta). Da questo nascono quelle cose assurde e dannose per ognuno, quali "mi hai fatto esplodere il cuore in otto milioni di parti, ma se mi chiedi cosa c'è? ti rispondo niente, sennò corro il rischio che tu te ne vada e preferisco averti qui che mi massacri, piuttosto che lontano", "hai la faccia sporca di caccole verdognole, fai schifo che non riesco a guardarti, ma non te lo dico perché non si fa", "mi stai tremendamente sui coglioni, se ti rovinasse addosso un toro da due tonnellate riderei per la comicità della scena e mi dimenticherei di chiamare un'ambulanza - comunque tanto saresti morto-, ma ti saluto lo stesso perché è buona educazione", e "al pranzo di nozze siamo 500, ne conosco solo 20, ma non posso non invitare gli altri 480 sennò si offendono".
Più pericolosi dei rapporti di coppia, in questo senso, sono le amicizie. Sarà perché abbiamo inventato quel detto idiota che gli amori vanno e i veri amici restano, e così ci tocca ammanettare gli amici e chiuderli in cantina per evitare che scappino, e quando qualcuno riesce a liberarsi - ovviamente aiutato da un complice, perché non è concepibile l'idea che decida di allontanarsi tutto da solo, solo perché l'abbiamo rinchiuso nelle segrete a pane e acqua piovana - diventa una tragedia, un'onta indelebile, un rifiuto anzi, il rifiuto, e non ci diamo pace. Letteralmente non ci consentiamo di restare in pace con noi stessi, ci lasciamo possedere totalmente da emozioni potenti che si nutrono delle nostre energie, perché un nostro sostegno si è spostato e noi annaspiamo. L'esempio paradossale sono le amicizie di facebook: io annovero "solo" un centinaio di questi amici, perché ho deciso un metodo di selezione che poi null'altro è se non una protezione, eppure quando mi arriva una richiesta di amicizia da qualcuno che non rientra nei miei criteri e gli spiego "ciccio, ti ringrazio ma non accetto caramelle dagli sconosciuti", puntualmente quello si offende; oppure quelli che ti accorgi che davvero non hai nulla a che vedere e quindi li cancelli dalle amicizie, perché magari pubblicano foto di svastiche e carri armati o passano la vita ad occuparsi solo di cosa va di moda di quindici giorni in quindici giorni e tu vai in giro vestita di iuta. Niente, tutti prendiamo un rifiuto come il rifiuto, anche se viene da un emerito sconosciuto o da una persona con cui non abbiamo in comune neppure il verso in cui sistemiamo la carta igienica sul rotolo, senza riuscire a vedere che "tu non mi piaci" significa tu non piaci a me e non "tu sei una merdaccia".
Insomma, non riusciamo a capire che abbiamo diritto a cercare quello che ci permette di stare bene e ad allontanare ciò che ci ferisce, e così passiamo il nostro tempo a fare l'esatto contrario, a sacrificarci per, a sopportare, mandare giù veleno, elemosinare manifestazioni di affetto da persone che, non per causa loro, ci fanno del male: siamo noi che chiediamo agli altri qualcosa che ci può arrivare solo da noi stessi e perdiamo il nostro tempo ad accusarli di non darci ciò che ci serve, mentre restiamo lì nella vana speranza di ottenere prima o poi l'inottenibile. Quindi se io scelgo di non rivolgerti più la parola è perché ho scelto di svincolarmi da questo gorgo di infelicità per farmi del bene, perché ho capito che da te non mi arriva nulla di ciò che voglio ed è un'occasione anche per te, che adesso potresti avere una catena in meno, se sfili il tuo polso come io ho sfilato il mio.
Che poi tu sia anche un ottuso bastardo viziato e infantile stronzo ricattatore manipolatore è una questione che non mi riguarda.
E comunque, la cosa più importante è che quei pochi che stanno lì in piedi da soli e ci osservano senza fare niente sono gli unici che davvero ci stanno aiutando, perché ci mostrano che stare in piedi da soli è possibile.
Per la maggior parte delle persone i rapporti umani soddisfano un bisogno di riconoscimento (sentirsi parte di un gruppo, essere apprezzati, ammirati, invidiati, compresi, appoggiati, desiderati, indispensabili, unici...) che è impossibile da soddisfare, ma non intrinsecamente, bensì perché se ne cerca soddisfazione negli altri: io mi sento vuota, incompleta, zoppa e cerco un appoggio all'esterno, nella persona che scelgo di aver accanto perché mi sembra che sia più stabile di me o che abbia le parti che a me mancano; ma a sua volta anche quella persona sta cercando un sostegno, anche solo uno specchio che gli rimandi un'immagine di sé che lui vorrebbe, ma che da solo non riesce ad avere, e così si crea un sistema di puntelli che diventa una massa tremolante fatta tutta di cunei, in cui se solo uno si sposta, crolla tutto. Così non solo ci impediamo di cercare bene e accorgerci che tutto quello che cerchiamo ce l'abbiamo già dentro, ma ci inventiamo le convenzioni sociali che ci proiettano irrimediabilmente verso l'esterno, e la morale comune per cui questo non si fa e quello non si dice, onde evitare che qualche cuneo si allontani e tutta l'impalcatura crolli, lasciandoci con le chiappe grattugiate sull'asfalto. Ed è anche il motivo per cui facciamo di tutto per buttare a terra quei pochi che stanno su da soli e ci osservano senza fare niente, perché ci sembra che non siano d'aiuto alla nostra struttura osteoporosica (mi sovviene una bella frase: "il chiodo che sporge viene preso a martellate", non ricordo dove l'ho letta). Da questo nascono quelle cose assurde e dannose per ognuno, quali "mi hai fatto esplodere il cuore in otto milioni di parti, ma se mi chiedi cosa c'è? ti rispondo niente, sennò corro il rischio che tu te ne vada e preferisco averti qui che mi massacri, piuttosto che lontano", "hai la faccia sporca di caccole verdognole, fai schifo che non riesco a guardarti, ma non te lo dico perché non si fa", "mi stai tremendamente sui coglioni, se ti rovinasse addosso un toro da due tonnellate riderei per la comicità della scena e mi dimenticherei di chiamare un'ambulanza - comunque tanto saresti morto-, ma ti saluto lo stesso perché è buona educazione", e "al pranzo di nozze siamo 500, ne conosco solo 20, ma non posso non invitare gli altri 480 sennò si offendono".
Più pericolosi dei rapporti di coppia, in questo senso, sono le amicizie. Sarà perché abbiamo inventato quel detto idiota che gli amori vanno e i veri amici restano, e così ci tocca ammanettare gli amici e chiuderli in cantina per evitare che scappino, e quando qualcuno riesce a liberarsi - ovviamente aiutato da un complice, perché non è concepibile l'idea che decida di allontanarsi tutto da solo, solo perché l'abbiamo rinchiuso nelle segrete a pane e acqua piovana - diventa una tragedia, un'onta indelebile, un rifiuto anzi, il rifiuto, e non ci diamo pace. Letteralmente non ci consentiamo di restare in pace con noi stessi, ci lasciamo possedere totalmente da emozioni potenti che si nutrono delle nostre energie, perché un nostro sostegno si è spostato e noi annaspiamo. L'esempio paradossale sono le amicizie di facebook: io annovero "solo" un centinaio di questi amici, perché ho deciso un metodo di selezione che poi null'altro è se non una protezione, eppure quando mi arriva una richiesta di amicizia da qualcuno che non rientra nei miei criteri e gli spiego "ciccio, ti ringrazio ma non accetto caramelle dagli sconosciuti", puntualmente quello si offende; oppure quelli che ti accorgi che davvero non hai nulla a che vedere e quindi li cancelli dalle amicizie, perché magari pubblicano foto di svastiche e carri armati o passano la vita ad occuparsi solo di cosa va di moda di quindici giorni in quindici giorni e tu vai in giro vestita di iuta. Niente, tutti prendiamo un rifiuto come il rifiuto, anche se viene da un emerito sconosciuto o da una persona con cui non abbiamo in comune neppure il verso in cui sistemiamo la carta igienica sul rotolo, senza riuscire a vedere che "tu non mi piaci" significa tu non piaci a me e non "tu sei una merdaccia".
Insomma, non riusciamo a capire che abbiamo diritto a cercare quello che ci permette di stare bene e ad allontanare ciò che ci ferisce, e così passiamo il nostro tempo a fare l'esatto contrario, a sacrificarci per, a sopportare, mandare giù veleno, elemosinare manifestazioni di affetto da persone che, non per causa loro, ci fanno del male: siamo noi che chiediamo agli altri qualcosa che ci può arrivare solo da noi stessi e perdiamo il nostro tempo ad accusarli di non darci ciò che ci serve, mentre restiamo lì nella vana speranza di ottenere prima o poi l'inottenibile. Quindi se io scelgo di non rivolgerti più la parola è perché ho scelto di svincolarmi da questo gorgo di infelicità per farmi del bene, perché ho capito che da te non mi arriva nulla di ciò che voglio ed è un'occasione anche per te, che adesso potresti avere una catena in meno, se sfili il tuo polso come io ho sfilato il mio.
Che poi tu sia anche un ottuso bastardo viziato e infantile stronzo ricattatore manipolatore è una questione che non mi riguarda.
E comunque, la cosa più importante è che quei pochi che stanno lì in piedi da soli e ci osservano senza fare niente sono gli unici che davvero ci stanno aiutando, perché ci mostrano che stare in piedi da soli è possibile.
lunedì 6 agosto 2012
Ex
Allora parliamoci chiaro: volenti o nolenti, che tentiamo il tutto per tutto al fine di sfuggirgli, che gli andiamo incontro col mento alzato a mo’ di sfida, o che semplicemente ci muoviamo elegantemente per ignorarlo, il confronto con gli ex è inevitabile. Anzitutto un ex ci sarà sempre: è l’attore del telefilm della prima adolescenza, la bimba con le trecce che passava i compiti alle elementari, il bambino con gli occhi celesti che ha dato uno spintone per difenderci dal prepotente all’asilo, la prima tata, la mamma, il papà, lo spermatozoo, nessuno può dirsi mai il primo o la prima, ché per ciascuno c’è sempre un’entità reale o virtuale che è arrivata nei nostri cuori in precedenza e di cui serbiamo un ricordo di zucchero filato rosa. O un prepotente desiderio di rivalsa. Certo, poi la competizione maschile di norma si esaurisce a chi dura di più e chi ce l’ha più grande, anche se in verità pure gli uomini riescono a sfoderare una serie di variazioni sul tema non da poco: ce l’aveva più lungo? Più largo? Più dritto? Piegato in avanti? Più duro? Impiegava meno tempo per avere un’erezione? Lo teneva su di più? Lo muoveva meglio? E la lingua? Quante volte ti faceva venire con la lingua? E quanti orgasmi avevi? Ma clitoridei, vaginali o uterini? (Ah, voi lo sapete che se arrivate a poter porre tutte queste domande senza essere mollati in autostrada è vero amore, sì?). Ma le donne restano comunque le peggiori, in quanto ad ansia da confronto: io per esempio ho un’insicurezza di fondo, per cui apparterrei al primo tipo in elenco (quella che scappa), ma ho anche una vocina dentro che mi dice che sono una cogliona a provare queste debolezze e quindi mi comporto come al punto tre: con elegante noncuranza. Che vi assicuro è la peggiore, perché l’uomo tende a pensare “be’, non gliene frega niente, meno male, si vede che lei è superiore a queste cose” e finisce per raccontare particolari delle sue “vite precedenti” di cui, onestamente, faremmo volentieri a meno. Ad ogni modo addentrarmi nei campi che noi donne sentiamo come terreno di confronto è una pazzia: le lettrici, se azzardano un minimo di auto-analisi, possono intuirlo, ma temo che non sarebbe lo stesso per i lettori, che rischiano di limitare notevolmente la questione a cose scontate – e consentitemi di dirlo, anche un po’ noiose – come “aveva il culo più sodo? Le tette più grandi? Le labbra più carnose? Ci sapeva fare di più?”. Quindi vi dò giusto un assaggio della follia femminile, accennandovi che una donna si può trovare a fare pensieri come “era più sensuale di me, quando veniva? Sarebbe stata più fotogenica in un video hard? Aveva la clitoride più aderente alle grandi labbra? Stava più simpatica ai tuoi amici? Piaceva di più ai tuoi genitori? Rifaceva meglio il letto? Preparava meglio da mangiare? Rammendava meglio i calzini? Aveva le ginocchia più lisce? Era meno pelosa? I suoi gomiti erano più morbidi? Scorreggiava o implodeva?”. E via, e via in un crescendo di delirio senza fine, tipico del marchio XX.
Io la prima ex con cui ho avuto a che fare era la mia migliore amica, ma devo dire che la storia è durata qualcosa come una settimana e l’unica cosa per cui avrei potuto temere un confronto, vale a dire il primo – e unico- bacio, a me aveva fatto così schifo che l’idea che quel tipo potesse anche solo pensare di fare paragoni tra noi due, quando lui per primo era un disastro totale, non mi ha proprio sfiorata. Col secondo non ho avuto grandi problemi: insomma, la sua ex avrebbe potuto essere anche Angelina Jolie, ma non gliel’aveva data, quindi è stata una mia vittoria a mani basse. Ero talmente gasata da questa cosa, che ho perso totalmente la testa e me lo sono sposato. Càpita. Non a tanti, per fortuna. Il terzo mi ha creato qualche problema: intanto le ex erano tante e di una varietà notevole, dalla tardona che se lo è preso da adolescente e se l’è tirato su a colpi di ventre, alla ragazzina di dieci anni più giovane che si è lasciata introdurre alle gioie dell’età adulta come una Eliza dal suo Pigmalione. Tutte lo avevano lasciato, tracciando ciascuna in lui un solco indelebile di dolore e sofferenza, che io onestamente, nonostante le sue rassicurazioni “tu sei completamente diversa”, continuavo a vedere come tacche di conquista marchiate a fuoco delle altre. Capirete che l’unico modo per non essere da meno e mantenere lo stesso standard cui era abituato, era lavorare di cesello un altro solco, profondo tanto quanto gli altri (ognuno ha il terreno di confronto che si merita: se un numero non ben definito di donne aveva deciso di troncare, un motivo ci sarà stato. Sarebbero cose da sapere per tempo, comunque diffidate dei multi-lasciati). Il quarto (già quattro: che troia) era amico di tutte le sue ex. Ecco anche qui per le lettrici potrei fermarmi, ché già ho comunicato quanto basta, ma per rispetto nei confronti di voi maschietti – e maschioni – proseguo un po’ oltre. Il quarto era amico di tutte le sue ex, le quali erano a loro volta tutte amiche della di lui madre su facebook, la quale non poteva vederle mentre stavano col figlio, salvo poi iniziare a venerarle, rimpiangerle e decantarne le qualità nel momento esatto in cui diventavano ex e venivano rimpiazzate. Devo aggiungere altro? Devo davvero esplicitare che l’invincibile ex qui in azione era la genitrice? Sonora sconfitta per inevitabile KO tecnico. Fuggite, donne, da un uomo che si sente al telefono con la mamma quattro volte al giorno, otto nel weekend: non si può competere contro la donna che per prima gli ha scappellato l’uccello e gli ha infilato una tetta in bocca.
Certo, con gli anni i confronti si sentono meno e anche la donna più insicura raggiunge una certa dose di confortevole consapevolezza, grazie alla quale è veramente ed intimamente conscia anzitutto del fatto che tutti abbiamo un passato, prima fondamentale nozione, e che ciò che davvero conta è solo il presente: se il tuo presente sono io, è grazie a tutto il tuo passato. E poi col tempo impariamo anche a conoscere noi stessi e i nostri punti di forza e riusciamo a contare più su quelli, che non a temere le nostre lacune: insomma, sappiamo quali sfide affrontare e quali eventualmente lasciar perdere, perché l’esperienza ci ha resi coscienti di noi stessi.
Quindi in conclusione no, Amore, non te lo faccio il tiramisù perché sarebbe una sfida persa in partenza. In compenso, però, ti farò un pompino.
Io la prima ex con cui ho avuto a che fare era la mia migliore amica, ma devo dire che la storia è durata qualcosa come una settimana e l’unica cosa per cui avrei potuto temere un confronto, vale a dire il primo – e unico- bacio, a me aveva fatto così schifo che l’idea che quel tipo potesse anche solo pensare di fare paragoni tra noi due, quando lui per primo era un disastro totale, non mi ha proprio sfiorata. Col secondo non ho avuto grandi problemi: insomma, la sua ex avrebbe potuto essere anche Angelina Jolie, ma non gliel’aveva data, quindi è stata una mia vittoria a mani basse. Ero talmente gasata da questa cosa, che ho perso totalmente la testa e me lo sono sposato. Càpita. Non a tanti, per fortuna. Il terzo mi ha creato qualche problema: intanto le ex erano tante e di una varietà notevole, dalla tardona che se lo è preso da adolescente e se l’è tirato su a colpi di ventre, alla ragazzina di dieci anni più giovane che si è lasciata introdurre alle gioie dell’età adulta come una Eliza dal suo Pigmalione. Tutte lo avevano lasciato, tracciando ciascuna in lui un solco indelebile di dolore e sofferenza, che io onestamente, nonostante le sue rassicurazioni “tu sei completamente diversa”, continuavo a vedere come tacche di conquista marchiate a fuoco delle altre. Capirete che l’unico modo per non essere da meno e mantenere lo stesso standard cui era abituato, era lavorare di cesello un altro solco, profondo tanto quanto gli altri (ognuno ha il terreno di confronto che si merita: se un numero non ben definito di donne aveva deciso di troncare, un motivo ci sarà stato. Sarebbero cose da sapere per tempo, comunque diffidate dei multi-lasciati). Il quarto (già quattro: che troia) era amico di tutte le sue ex. Ecco anche qui per le lettrici potrei fermarmi, ché già ho comunicato quanto basta, ma per rispetto nei confronti di voi maschietti – e maschioni – proseguo un po’ oltre. Il quarto era amico di tutte le sue ex, le quali erano a loro volta tutte amiche della di lui madre su facebook, la quale non poteva vederle mentre stavano col figlio, salvo poi iniziare a venerarle, rimpiangerle e decantarne le qualità nel momento esatto in cui diventavano ex e venivano rimpiazzate. Devo aggiungere altro? Devo davvero esplicitare che l’invincibile ex qui in azione era la genitrice? Sonora sconfitta per inevitabile KO tecnico. Fuggite, donne, da un uomo che si sente al telefono con la mamma quattro volte al giorno, otto nel weekend: non si può competere contro la donna che per prima gli ha scappellato l’uccello e gli ha infilato una tetta in bocca.
Certo, con gli anni i confronti si sentono meno e anche la donna più insicura raggiunge una certa dose di confortevole consapevolezza, grazie alla quale è veramente ed intimamente conscia anzitutto del fatto che tutti abbiamo un passato, prima fondamentale nozione, e che ciò che davvero conta è solo il presente: se il tuo presente sono io, è grazie a tutto il tuo passato. E poi col tempo impariamo anche a conoscere noi stessi e i nostri punti di forza e riusciamo a contare più su quelli, che non a temere le nostre lacune: insomma, sappiamo quali sfide affrontare e quali eventualmente lasciar perdere, perché l’esperienza ci ha resi coscienti di noi stessi.
Quindi in conclusione no, Amore, non te lo faccio il tiramisù perché sarebbe una sfida persa in partenza. In compenso, però, ti farò un pompino.
sabato 4 agosto 2012
Dieci cose che avreste voluto sapere sull’estate (e non avete mai avuto il coraggio di chiedere)
1. Perché l’estate si chiama “e-state”? Dove dobbiamo stare? Perché ci dobbiamo stare? Ma soprattutto, che fine ha fatto la frase che logicamente dovrebbe precedere la congiunzione? Siamo forse di fronte ad una traccia, per trovare risposta ad uno dei più grandi misteri dell’essere umano: il nome di Dio? E se è un nome, allora perché non si pronuncia Éstate? I nomi delle stagioni celano qualche sfuggente messaggio mistico, che nessuno mai ha osato cercare di svelare? Abbiamo forse sempre avuto davanti agli occhi il senso della vita, ma ci siamo sempre fatti fottere dagli accenti tonici? Prima Vera e State a Utunno in Verno?
2. Perché alla legittima domanda “perché in éstate fa caldo?”, continuiamo imperterriti a rispondere “perché è éstate”, pur sapendo che nell’altro emisfero (l’altro emisfero, quello che non si chiama come questo perché non è questo e quindi molto semplicemente lo si può chiamare solo “l’altro”) d’estate fa un cazzo di freddo? È l’ennesima domanda cui non avremo mai risposta perché la Chiesa, il Bilderberg e Sauron si adoperano da anni per insabbiare la verità, insediando i loro uomini di punta nelle previsioni meteorologiche?
3. Che fine ha fatto l’anticiclone delle Azzorre? È stato segato anche lui per la crisi ed ora il suo contratto a tempo indeterminato l’hanno dato via, spalmandolo su mezza dozzina di prestazioni occasionali?
4. Perché negli Stati Uniti danno sempre i nomi di battesimo agli uragani, mentre noi non diamo mai nessun nome agli eventi atmosferici? Ah, no, questa devo ricordarmi di toglierla.
5. Perché in éstate tutto puzza di piscio? I panni stesi puzzano di piscio, il pavimento puzza di piscio, l’ascensore puzza di piscio, le docce delle spiagge puzzano di piscio, le strade puzzano di piscio, le panchine puzzano di piscio, bambini puzzano di piscio, i vecchi puzzano di piscio, gli animali puzzano di piscio? Sarà il caso ch’io smetta di pisciare sui panni, sul pavimento, in ascensore, per strada, nelle docce, sulle panchine, sui bambini, sui vecchi e sugli animali?
6. Perché in éstate la tivvù trasmette sempre tutta la saga di Rosamunde Pilcher? Non è già abbastanza deprimente il fatto che tutto puzzi di piscio?
7. Perché ogni volta che mangio un ghiacciolo poi ho le dita appiccicose? Mica mangio il ghiacciolo come Mork!
8. Perché le cicale cantano tutto il giorno? Non si rendono conto che così facendo le formiche glielo mettono sempre nel culo? Non si sono accorti dei danni che fanno all’intero ecosistema, conducendo questa loro vita dissoluta e rumorosa, che ha permesso a Heather Parisi di metter su una canzone che propineranno ancora ai nipoti dei nostri nipoti cicale-cicale-cicale di merda?
9. Perché d’éstate la mia libido sale, mentre quella del mio fidanzato scende, salvo poi risalire in impennata con un ultimo guizzo da pesce moribondo al passaggio di ogni culo abbronzato in tanga? Sarà mica proprio per quello che scende, onde evitare che corra dietro a tutti i culi abbronzati in tanga in perenne erezione? E poi perché i culi abbronzati sono sempre quelli delle altre? Perché? Perché?
10. Perché in éstate il mio culo non si abbronza?
2. Perché alla legittima domanda “perché in éstate fa caldo?”, continuiamo imperterriti a rispondere “perché è éstate”, pur sapendo che nell’altro emisfero (l’altro emisfero, quello che non si chiama come questo perché non è questo e quindi molto semplicemente lo si può chiamare solo “l’altro”) d’estate fa un cazzo di freddo? È l’ennesima domanda cui non avremo mai risposta perché la Chiesa, il Bilderberg e Sauron si adoperano da anni per insabbiare la verità, insediando i loro uomini di punta nelle previsioni meteorologiche?
3. Che fine ha fatto l’anticiclone delle Azzorre? È stato segato anche lui per la crisi ed ora il suo contratto a tempo indeterminato l’hanno dato via, spalmandolo su mezza dozzina di prestazioni occasionali?
4. Perché negli Stati Uniti danno sempre i nomi di battesimo agli uragani, mentre noi non diamo mai nessun nome agli eventi atmosferici? Ah, no, questa devo ricordarmi di toglierla.
5. Perché in éstate tutto puzza di piscio? I panni stesi puzzano di piscio, il pavimento puzza di piscio, l’ascensore puzza di piscio, le docce delle spiagge puzzano di piscio, le strade puzzano di piscio, le panchine puzzano di piscio, bambini puzzano di piscio, i vecchi puzzano di piscio, gli animali puzzano di piscio? Sarà il caso ch’io smetta di pisciare sui panni, sul pavimento, in ascensore, per strada, nelle docce, sulle panchine, sui bambini, sui vecchi e sugli animali?
6. Perché in éstate la tivvù trasmette sempre tutta la saga di Rosamunde Pilcher? Non è già abbastanza deprimente il fatto che tutto puzzi di piscio?
7. Perché ogni volta che mangio un ghiacciolo poi ho le dita appiccicose? Mica mangio il ghiacciolo come Mork!
8. Perché le cicale cantano tutto il giorno? Non si rendono conto che così facendo le formiche glielo mettono sempre nel culo? Non si sono accorti dei danni che fanno all’intero ecosistema, conducendo questa loro vita dissoluta e rumorosa, che ha permesso a Heather Parisi di metter su una canzone che propineranno ancora ai nipoti dei nostri nipoti cicale-cicale-cicale di merda?
9. Perché d’éstate la mia libido sale, mentre quella del mio fidanzato scende, salvo poi risalire in impennata con un ultimo guizzo da pesce moribondo al passaggio di ogni culo abbronzato in tanga? Sarà mica proprio per quello che scende, onde evitare che corra dietro a tutti i culi abbronzati in tanga in perenne erezione? E poi perché i culi abbronzati sono sempre quelli delle altre? Perché? Perché?
10. Perché in éstate il mio culo non si abbronza?
giovedì 5 luglio 2012
A Tribute to.
Una mia insegnante una volta mi disse: “La più grande menzogna dell’umanità è che gli uomini sono tutti uguali, perché è in questo modo che si nega a chi è diverso di aver gli stessi diritti degli altri”.
Pregiudizi razziali.
Che differenza c’è tra dire “I Rumeni sono stupratori” e “I veneti sono gran lavoratori”? Nessuna. Ogni forma di tabù è solo un pregiudizio che sottende all’intolleranza.
Umore Maligno ha letto un intero post col quale portava l'attenzione sul razzismo, impersonando in ogni battuta il razzista Doc di fronte ad una platea di Nigeriani e Senegalesi alti come sequoie e spessi come baobab (o è il contrario? Boh, ‘sti alberi son tutti uguali) e non solo nessun satiro è stato maltrattato durante le riprese, ma al termine dello spettacolo una fan fedelissima è addirittura stata avvicinata da uno di questi oscuri spettatori – “avvicinata” di quel tot di decimetri che l’evidente eccitazione dello spettatore permetteva – per una fusion intercultuale.
E in tutto questo la cosa più figa non è stata che quella trentina di extracomunitari ha capìto che quello che si stava facendo era la parodia del razzista-benpensante, bensì sentire la ragazza che tentava di spiegare all’Africano diffidente che “No, non è che non ti voglio perché tu sei nero: è perché io sono lesbica!”.
Omosessualità e dintorni.
Che poi la rivolta del Vaticano potevo anche capirla, ma una sfilza di politici di sinistra che accusano di istigazione alla violenza è ai confini della realtà.
(Un omosessuale e due donne. Avete notato come chi si sente parte di una minoranza bistrattata si erga a difensore di tutte le altre minoranze bistrattate? Cristallizzandole così facendo nella definizione di “minoranza bistrattata”. Gli omosessuali difendono i disabili, i disabili difendono le donne, le donne difendono i parlamentari, i parlamentari difendono Sara Tommasi e Sara Tommasi difende gli alieni. Chissà forse prima o poi gli alieni difenderanno Balotelli).
Comunque a proposito di minoranze e ciellini mi sono ricordata di un episodio già raccontato altrove, ma che mi fa piacere rispolverare di tanto in tanto, ossia quando il mio bimbo ha voluto farsi il foro al lobo per mettere l’orecchino e siamo andati dalla gioielliera che gli ha risposto “Io non faccio il buco a un bambino maschio”. E il papà e la sua compagna – pie persone che vanno a messa ogni domenica, a meno che non ci sia la partita o l’appuntamento dall’estetista –, che sostenuti dai nonni paterni - comunisti tutto d’un pezzo, zoccolo duro di Botteghe Oscure che tengono strette nel pugno alzato la loro baby pensione e le chiavi delle case acquistate con la liquidazione dei durissimi anni da statali - recitavano il mantra “Orecchino e codino fanno bambina di bambino”. E i compagni di scuola che non si erano neppure accorti della piccola differenza, ma ci hanno pensato le mamme, a farlo notare: “Hai visto? Ha l’orecchino come le femminucce” e via, tutte le bimbe a prenderlo in giro.
- Ma anche fosse gay, ma quale sarebbe il problema?
- Gay non va bene.
- Ma non va bene cosa? È la sua vita, mica la tua.
- Se tu sei d’accordo che diventi gay, poi per forza che diventa gay.
- Ma guarda che non è come studiare da avvocato: “Mamma, da grande voglio fare il gay, tu che dici possiamo permettercelo o serve la borsa di studio?”.
- Ma lo sai che in Giappone hanno studiato il gene dell’omosessualità e stanno creando un vaccino?
- Ah, sì? Prima o dopo le radiazioni di Fukushima?
- Non gli fai neanche guardare il calcio: già vive con te che sei una donna, balla i Chemical Brothers, se poi gli permetti di farsi crescere i capelli e mettere l’orecchino…
- …e gli piacciono pure le Subaru, che ti devo dire: è sulla buona strada per diventare un tamarro!
- Se si trasforma in un gay, non diventerai mai nonna e…
- …e se si trasforma in un lupo mannaro, farà i miliardi con Twilight.
- Vabbè, non si può ragionare con te.
- Minchia con te invece ci fanno i simposi.
(Eh sì, questo io me l’ero sposato).
Disabilità psicofisiche.
E adesso mi accusano di essere una che istiga all’odio nei confronti del diverso. Gente che nemmeno ammette l’esistenza del diverso!
Questa mattina sono andata al patronato per compilare la mia prima dichiarazione dei redditi. Modello Unico, in realtà, perché non avendo un datore di lavoro eccetera eccetera.
Dire che al 5x1000 non avevo proprio pensato sarebbe impreciso: la verità è che mi ero concentrata solo sul NON devolvere l’8 alla Chiesa Cattolica (proposito che ho mantenuto) e non avevo fatto mente locale su quali avrebbero potuto essere le opzioni per il 5. Ad ogni modo non è stato difficile: non appena la ragazza mi ha chiesto cosa volessi farne mi è subito venuta in mente la mia amica con il suo piccolo e ho detto in tutta tranquillità “Famiglie SMA”.
Famiglie SMA sostiene i genitori, i fratelli ed i parenti tutti di quei bambini che nascono affetti da atrofia muscolare, una malattia degenerativa ed invalidante che impedisce alla muscolatura di formarsi - e se non fosse già chiaro così, vi ricordo brevemente che ad esempio il cuore è un muscolo-. Avere un bambino affetto da questa patologia significa avere a che fare un bambino che ha esattamente le stesse aspirazioni, gli stessi desideri, gli stessi capricci di ogni altro bambino sano, ma che è fisicamente impossibilitato a vedere realizzate le più semplici velleità, come andare in bicicletta o sull’altalena. E significa tenere sempre presente che se in famiglia ci sono altri cuccioli che non sono malati, non è giusto tarpar loro le ali per evitare che le suddette ali suscitino l’invidia di quello che non può volare. E significa essere sempre forti e pronti al peggio, ma al tempo stesso saper gioire e sperare nel meglio. E significa guardarsi dentro e trovarsi faccia a faccia con le nostre peggiori paure e insegnare a tutti i piccoli a fare lo stesso. Ma per poter vivere – non sopravvivere – a tutto questo, l’unica via possibile è accettare che abbiamo dei limiti. Tutti.
Il limite dei genitori è il senso di colpa: è colpa mia, colpa tua, colpa nostra se il nostro patrimonio genetico non è stato perfetto, ed è un limite che rischiano di non superere mai, perché mai lo riconosceranno. Il limite dei fratelli è le gelosia, unita indissolubilmente al senso di colpa: sono geloso perché mio fratello, mia sorella malata hanno le attenzioni di mamma e papà, e allora sono cattivo perché sono geloso di mia sorella, mio fratello malato. Insuperabile, perché non lo riconosceranno mai. Il limite dei nonni è lo stesso dei genitori, ma moltiplicato per due generazioni. Insomma, il limite del sano, è il malato.
E il limite del malato è di essere malato. Sì, perché signori, essere malati è un limite. Un patrimonio genetico imperfetto è un limite. Se non ho le gambe, ho un limite. Se non ho le braccia, ho un limite. Se non ho un percorso cognitivo come la maggioranza degli individui che mi circondano, ho un limite. Oggettivo. Perché la società è costruita a proprio uso e consumo da una maggioranza che si riconosce come “normale”, cucita sulle esigenze e sulle capacità della maggioranza stessa e chi si discosta da questa maggioranza ha un limite nell’inserimento nella sua società.
Ma questa cosa non si può dire: è tabù, è vergogna, è peccato, è offesa, è discriminazione, è reato. Quando in realtà è solo un re nudo, cui viene fatto credere di essere vestito.
È amore questo? Convincere qualcuno che può fare le stesse cose che fanno gli altri, perché “è normale”, anziché aiutarlo a capire cosa può fare e cosa no, perché non è normale, ma è perfetto così com’è? È socialmente accettabile lasciare intendere ad un piccolo individuo sin dai primi giorni di vita che la normalità è l’idea da perseguire, perché la diversità è un male impronunciabile che va negato? È così spaventoso creare individui semplicemente consapevoli di essere diversi, che non cercano di omologarsi al resto, ma che trovano la propria strada e il proprio mezzo per percorrerla?
Diverso è solo diverso: siete proprio voi a renderlo sinonimo di sbagliato.
Pregiudizi razziali.
Che differenza c’è tra dire “I Rumeni sono stupratori” e “I veneti sono gran lavoratori”? Nessuna. Ogni forma di tabù è solo un pregiudizio che sottende all’intolleranza.
Umore Maligno ha letto un intero post col quale portava l'attenzione sul razzismo, impersonando in ogni battuta il razzista Doc di fronte ad una platea di Nigeriani e Senegalesi alti come sequoie e spessi come baobab (o è il contrario? Boh, ‘sti alberi son tutti uguali) e non solo nessun satiro è stato maltrattato durante le riprese, ma al termine dello spettacolo una fan fedelissima è addirittura stata avvicinata da uno di questi oscuri spettatori – “avvicinata” di quel tot di decimetri che l’evidente eccitazione dello spettatore permetteva – per una fusion intercultuale.
E in tutto questo la cosa più figa non è stata che quella trentina di extracomunitari ha capìto che quello che si stava facendo era la parodia del razzista-benpensante, bensì sentire la ragazza che tentava di spiegare all’Africano diffidente che “No, non è che non ti voglio perché tu sei nero: è perché io sono lesbica!”.
Omosessualità e dintorni.
Che poi la rivolta del Vaticano potevo anche capirla, ma una sfilza di politici di sinistra che accusano di istigazione alla violenza è ai confini della realtà.
(Un omosessuale e due donne. Avete notato come chi si sente parte di una minoranza bistrattata si erga a difensore di tutte le altre minoranze bistrattate? Cristallizzandole così facendo nella definizione di “minoranza bistrattata”. Gli omosessuali difendono i disabili, i disabili difendono le donne, le donne difendono i parlamentari, i parlamentari difendono Sara Tommasi e Sara Tommasi difende gli alieni. Chissà forse prima o poi gli alieni difenderanno Balotelli).
Comunque a proposito di minoranze e ciellini mi sono ricordata di un episodio già raccontato altrove, ma che mi fa piacere rispolverare di tanto in tanto, ossia quando il mio bimbo ha voluto farsi il foro al lobo per mettere l’orecchino e siamo andati dalla gioielliera che gli ha risposto “Io non faccio il buco a un bambino maschio”. E il papà e la sua compagna – pie persone che vanno a messa ogni domenica, a meno che non ci sia la partita o l’appuntamento dall’estetista –, che sostenuti dai nonni paterni - comunisti tutto d’un pezzo, zoccolo duro di Botteghe Oscure che tengono strette nel pugno alzato la loro baby pensione e le chiavi delle case acquistate con la liquidazione dei durissimi anni da statali - recitavano il mantra “Orecchino e codino fanno bambina di bambino”. E i compagni di scuola che non si erano neppure accorti della piccola differenza, ma ci hanno pensato le mamme, a farlo notare: “Hai visto? Ha l’orecchino come le femminucce” e via, tutte le bimbe a prenderlo in giro.
- Ma anche fosse gay, ma quale sarebbe il problema?
- Gay non va bene.
- Ma non va bene cosa? È la sua vita, mica la tua.
- Se tu sei d’accordo che diventi gay, poi per forza che diventa gay.
- Ma guarda che non è come studiare da avvocato: “Mamma, da grande voglio fare il gay, tu che dici possiamo permettercelo o serve la borsa di studio?”.
- Ma lo sai che in Giappone hanno studiato il gene dell’omosessualità e stanno creando un vaccino?
- Ah, sì? Prima o dopo le radiazioni di Fukushima?
- Non gli fai neanche guardare il calcio: già vive con te che sei una donna, balla i Chemical Brothers, se poi gli permetti di farsi crescere i capelli e mettere l’orecchino…
- …e gli piacciono pure le Subaru, che ti devo dire: è sulla buona strada per diventare un tamarro!
- Se si trasforma in un gay, non diventerai mai nonna e…
- …e se si trasforma in un lupo mannaro, farà i miliardi con Twilight.
- Vabbè, non si può ragionare con te.
- Minchia con te invece ci fanno i simposi.
(Eh sì, questo io me l’ero sposato).
Disabilità psicofisiche.
E adesso mi accusano di essere una che istiga all’odio nei confronti del diverso. Gente che nemmeno ammette l’esistenza del diverso!
Questa mattina sono andata al patronato per compilare la mia prima dichiarazione dei redditi. Modello Unico, in realtà, perché non avendo un datore di lavoro eccetera eccetera.
Dire che al 5x1000 non avevo proprio pensato sarebbe impreciso: la verità è che mi ero concentrata solo sul NON devolvere l’8 alla Chiesa Cattolica (proposito che ho mantenuto) e non avevo fatto mente locale su quali avrebbero potuto essere le opzioni per il 5. Ad ogni modo non è stato difficile: non appena la ragazza mi ha chiesto cosa volessi farne mi è subito venuta in mente la mia amica con il suo piccolo e ho detto in tutta tranquillità “Famiglie SMA”.
Famiglie SMA sostiene i genitori, i fratelli ed i parenti tutti di quei bambini che nascono affetti da atrofia muscolare, una malattia degenerativa ed invalidante che impedisce alla muscolatura di formarsi - e se non fosse già chiaro così, vi ricordo brevemente che ad esempio il cuore è un muscolo-. Avere un bambino affetto da questa patologia significa avere a che fare un bambino che ha esattamente le stesse aspirazioni, gli stessi desideri, gli stessi capricci di ogni altro bambino sano, ma che è fisicamente impossibilitato a vedere realizzate le più semplici velleità, come andare in bicicletta o sull’altalena. E significa tenere sempre presente che se in famiglia ci sono altri cuccioli che non sono malati, non è giusto tarpar loro le ali per evitare che le suddette ali suscitino l’invidia di quello che non può volare. E significa essere sempre forti e pronti al peggio, ma al tempo stesso saper gioire e sperare nel meglio. E significa guardarsi dentro e trovarsi faccia a faccia con le nostre peggiori paure e insegnare a tutti i piccoli a fare lo stesso. Ma per poter vivere – non sopravvivere – a tutto questo, l’unica via possibile è accettare che abbiamo dei limiti. Tutti.
Il limite dei genitori è il senso di colpa: è colpa mia, colpa tua, colpa nostra se il nostro patrimonio genetico non è stato perfetto, ed è un limite che rischiano di non superere mai, perché mai lo riconosceranno. Il limite dei fratelli è le gelosia, unita indissolubilmente al senso di colpa: sono geloso perché mio fratello, mia sorella malata hanno le attenzioni di mamma e papà, e allora sono cattivo perché sono geloso di mia sorella, mio fratello malato. Insuperabile, perché non lo riconosceranno mai. Il limite dei nonni è lo stesso dei genitori, ma moltiplicato per due generazioni. Insomma, il limite del sano, è il malato.
E il limite del malato è di essere malato. Sì, perché signori, essere malati è un limite. Un patrimonio genetico imperfetto è un limite. Se non ho le gambe, ho un limite. Se non ho le braccia, ho un limite. Se non ho un percorso cognitivo come la maggioranza degli individui che mi circondano, ho un limite. Oggettivo. Perché la società è costruita a proprio uso e consumo da una maggioranza che si riconosce come “normale”, cucita sulle esigenze e sulle capacità della maggioranza stessa e chi si discosta da questa maggioranza ha un limite nell’inserimento nella sua società.
Ma questa cosa non si può dire: è tabù, è vergogna, è peccato, è offesa, è discriminazione, è reato. Quando in realtà è solo un re nudo, cui viene fatto credere di essere vestito.
È amore questo? Convincere qualcuno che può fare le stesse cose che fanno gli altri, perché “è normale”, anziché aiutarlo a capire cosa può fare e cosa no, perché non è normale, ma è perfetto così com’è? È socialmente accettabile lasciare intendere ad un piccolo individuo sin dai primi giorni di vita che la normalità è l’idea da perseguire, perché la diversità è un male impronunciabile che va negato? È così spaventoso creare individui semplicemente consapevoli di essere diversi, che non cercano di omologarsi al resto, ma che trovano la propria strada e il proprio mezzo per percorrerla?
Diverso è solo diverso: siete proprio voi a renderlo sinonimo di sbagliato.
giovedì 21 giugno 2012
C'era una volta.
- C’era una volta un giovane di nome Lorenzo che andò dal padre e gli disse: “Papà, io me ne vado lontano e non tornerò più. Questo mondo che avete creato voi a me non piace, mi sta stretto: è ingiusto, è malato, è repressivo, è scorretto, è vendicativo, è gretto, è falso, è asfissiante, è sbagliato, è insufficiente, è insoddisfacente, è artefatto. È una realtà che mi è stata imposta ed io non l’accetto. Non voglio farne parte, non voglio collaborare con essa, non voglio darle le mie energie, non voglio darle la mia vita, non voglio darle la mia morte”.
A nulla valsero le suppliche e le minacce del padre: il ragazzo prese alcune delle sue cose, salutò tutti e partì, sotto lo sguardo attonito, disperato e ancora incredulo dei suoi affetti. Giunto alla fine della strada il ragazzo s’incontrò con una ragazza, che portava con sé due valigie ed uno zaino: i due si guardarono per un istante che parve loro eterno, ma che sfuggì completamente agli sguardi di chi ancora li stava osservando, ormai da lontano. Alla fine del quartiere si incontrano con altri sei. Alla fine del paese erano ventisette.
I media parlarono per giorni dei settantaquattro tra ragazzi e ragazze che nella stessa mattina, nella stessa regione, avevano salutato le famiglie dicendo che era per sempre: i più ipotizzarono un suicidio di massa, molti avvallarono la teoria della setta satanica, qualcuno azzardò l’ipotesi di un nuovo gioco erotico, un paio di complottisti insinuarono il dubbio che fosse una manovra di terrore pianificata da estremisti, che ben presto l’avrebbero rivendicata. Qualcuno disse che aveva sentito dire dal fidanzato della cugina della sorella della cameriera che aveva servito un bicchiere di acqua gassata non fredda ad uno dei ragazzi scomparsi, che il gruppo aveva deciso di uscire dalla società costituita, per fondare una nuova comunità naturale senza regole stabilite a priori, senza gerarchie, senza preconcetti, dove ognuno potesse essere finalmente davvero se stesso, nel rispetto della propria natura, ovunque questa natura li conducesse. Ma capite bene che questa fu la pista meno accreditata: nessuno avrebbe potuto essere così folle.
Poi ci fu l’ondata di caldo, con i consigli del medico (non uscite a mezzogiorno, bevete molta acqua, non mangiate pelliccia di marmotta), arrivò una serie di furti in villa, un paio di genitori uccisero i figli, qualche extracomunitario forse violentò un’anziana, la medusa killer, la protesi killer, l’afa killer, il marciapiede killer, la coccinella killer, il tormentone killer e altre notizie golose, e la vicenda dei settantaquattro fu dimenticata.
- Non m’importa ciò che dici, nonno Enzo: io me ne vado lontano e non tornerò più. Questo mondo che avete creato voi a me non piace, mi sta stretto: è ingiusto, è malato, è repressivo, è scorretto, è vendicativo, è gretto, è falso, è asfissiante, è sbagliato, è insufficiente, è insoddisfacente, è artefatto. È una realtà che mi è stata imposta ed io non l’accetto. Non voglio farne parte, non voglio collaborare con essa, non voglio darle le mie energie, non voglio darle la mia vita, non voglio darle la mia morte.
A nulla valsero le suppliche e le minacce del padre: il ragazzo prese alcune delle sue cose, salutò tutti e partì, sotto lo sguardo attonito, disperato e ancora incredulo dei suoi affetti. Giunto alla fine della strada il ragazzo s’incontrò con una ragazza, che portava con sé due valigie ed uno zaino: i due si guardarono per un istante che parve loro eterno, ma che sfuggì completamente agli sguardi di chi ancora li stava osservando, ormai da lontano. Alla fine del quartiere si incontrano con altri sei. Alla fine del paese erano ventisette.
I media parlarono per giorni dei settantaquattro tra ragazzi e ragazze che nella stessa mattina, nella stessa regione, avevano salutato le famiglie dicendo che era per sempre: i più ipotizzarono un suicidio di massa, molti avvallarono la teoria della setta satanica, qualcuno azzardò l’ipotesi di un nuovo gioco erotico, un paio di complottisti insinuarono il dubbio che fosse una manovra di terrore pianificata da estremisti, che ben presto l’avrebbero rivendicata. Qualcuno disse che aveva sentito dire dal fidanzato della cugina della sorella della cameriera che aveva servito un bicchiere di acqua gassata non fredda ad uno dei ragazzi scomparsi, che il gruppo aveva deciso di uscire dalla società costituita, per fondare una nuova comunità naturale senza regole stabilite a priori, senza gerarchie, senza preconcetti, dove ognuno potesse essere finalmente davvero se stesso, nel rispetto della propria natura, ovunque questa natura li conducesse. Ma capite bene che questa fu la pista meno accreditata: nessuno avrebbe potuto essere così folle.
Poi ci fu l’ondata di caldo, con i consigli del medico (non uscite a mezzogiorno, bevete molta acqua, non mangiate pelliccia di marmotta), arrivò una serie di furti in villa, un paio di genitori uccisero i figli, qualche extracomunitario forse violentò un’anziana, la medusa killer, la protesi killer, l’afa killer, il marciapiede killer, la coccinella killer, il tormentone killer e altre notizie golose, e la vicenda dei settantaquattro fu dimenticata.
- Non m’importa ciò che dici, nonno Enzo: io me ne vado lontano e non tornerò più. Questo mondo che avete creato voi a me non piace, mi sta stretto: è ingiusto, è malato, è repressivo, è scorretto, è vendicativo, è gretto, è falso, è asfissiante, è sbagliato, è insufficiente, è insoddisfacente, è artefatto. È una realtà che mi è stata imposta ed io non l’accetto. Non voglio farne parte, non voglio collaborare con essa, non voglio darle le mie energie, non voglio darle la mia vita, non voglio darle la mia morte.
domenica 27 maggio 2012
Melassa sui coglioni.
Qualche giorno fa ho scritto questo:
L’amica di Melissa, 16 anni: “Ho visto la morte in faccia, non voglio più andare a scuola”. “Mamma, ho mal di pancia” non bastava più.
Poche ore dopo aver pubblicato la battuta di cui sopra, ho ricevuto un messaggio da una cara amica, che vado a riportare sotto:
"Clara, scusa se mi permetto, ma il tuo commento sull’amica di melissa mi ha lasciata basita! Inopportuno direi! Ho letto i tuoi vari post nei mesi-molto sono arguti e d'effetto ma quasi tutti a sfondo sessuale e spesso con parolacce. Il punto è che volevo capire come mai... ti porto un esempio: Crozza. Mi piace, ma credo che ecceda nel turpiloquio e x i tuoi post ho la stessa sensazione…"
Inutile negare di aver provato dispiacere nel leggere queste parole, ma non è stato il contenuto: chi bazzica il genere sa bene che sono le stesse obiezioni che ci (mi, ti, vi, CHI?!?) vengono mosse ogniqualvolta si toccano argomenti che non siano triti e ritriti, facili, comodi, moralistici, scontati, Brunetta-nano, Bossi-ignorante, Napolitano-firma, prete-pedofilo, B.-puttaniere e chi più ne ha, più ne metta nell’infinito calderone dei binomi prevedibili di quella “satira” che si può leggere coi neuroni poggiati sul comodino, mentre si sorseggia un bicchiere di barolo chinato accompagnato da un quadratino di cioccolato fondente. No, il mio problema era ovviamente la fonte da cui provenivano tali osservazioni incredule, cioè una persona amica; per cui mi sono sentita in dovere di non liquidarla con il solito “vaffanculo” che riservo (riserviamo, riservi, riservate, riserCHI!?!) a chi si ostina a non capire (come ad esempio G.L.C.:
- UM encefalogramma piatto, questa non è satira sono solo baggianate di pessimo gusto...Puntate sui politici e lasciate stare le discrazie della povera gente.
La satira è pigliare per il culo il potere e non la povera gente....
Con il quale però devo dire che mi sono trattenuta:
- La cosa che mi dà maggior soddisfazione (omissis, ché il blog lo legge anche mia madre ciao mamma) è leggere che la satira debba prendersela coi potenti, quando è evidente che l'unico motivo di questa esternazione è il livore dato dal fatto di non essere tra i suddetti potenti. Che poi proprio per questo dovreste ringraziare che UM non se la prende solo con questo fantomatico "potente", ma anche - oserei dire soprattutto - con chi ha l'invidia del pennone*).
Così ho respirato (inspira, espira, inspira, espira) e ho risposto, come se fosse stata la prima e non la milionesima volta che tentavo di chiarire la cosa:
“Ciao topona,
la risposta a queste ed altre domande la trovi chiara ed asciutta qui:
Manifesto
Prima di leggere questo, però, personalizzo il concetto con parole solo mie.
Iniziamo dal parallelo: Crozza è un buonista populista, che scrive con il solo scopo del plauso massificato. Crozza fa satira comoda e il turpiloquio come lo usa lui ha il solo scopo di riempire spazi vuoti e mantenere desta l'attenzione dell'ascoltatore, che sennò si distrarrebbe annoiato. Crozza è satira compiacente: dà alla gente il contentino che serve a far sì che si sentano compresi e rinuncino a cambiare lo stato delle cose di cui vanno lamentandosi.
La gente sta bene come sta: la gente sta bene quando sta male e può lamentarsi. E la società sta bene quando la gente spreca energie lamentandosi ed indignandosi. "Indignazione", come va di moda, eh? Assieme a "vergogna". Indignazione e vergogna non sono che placebo, non servono a nulla: la gente s'indigna e si convince di aver fatto la propria parte, "Indignamoci tutti!". Ora sì, che stiamo meglio.
La satira nasce come elemento distruttivo, NON costruttivo: la satira rompe gli argini e straccia i limiti in cui l'essere umano si rifugia. La bestemmia, i riferimenti marcatamente sessuali e tutte quelle che vengono definite "volgarità", da un vocabolario che prende i concetti direttamente dalle religioni e da tutte quelle forme di controllo sociale, non sono uno scopo, bensì un mezzo. Se ciò che scrivo ti infastidisce, ti provoca disagio e ti fa pensare "be', avrebbe potuto esprimere lo stesso concetto in altro modo", allora il mio scopo è quasi raggiunto: il disagio deriva da un piccolo/grande scossone che le mie parole hanno dato alle tue costruzioni mentali e, se poi ci pensi, un'altra terminologia non avrebbe assolutamente avuto questo effetto: è facile far proseliti ironizzando sui difetti di un Bossi, di un Monti, di un Berlusconi, ma questo non serve che a creare buoni vs cattivi: la visone manichea del mondo è ciò che tiene l'essere umano incatenato nella sua prigione di tabù imposti. L'essere umano per sua natura non ha tabù e la satira amplifica il suo essere senza tabù, proprio per sottolineare questo.
Ogni battuta, indipendentemente dalla notizia da cui parte, non prende per forza in giro il soggetto della notizia, il bersaglio è il lettore: il lettore che crea mostri e venera eroi, cieco sordo e muto al bene che alberga nei mostri e al male che macchia gli eroi; il lettore che parli di aborto e ti scrive "vorrei che i vostri figli morissero, assassini!" (è successo. Anzi, succede ogni volta). Caso in cui oggetto di scherno è il soggetto della notizia è quando si parla di un personaggio che si ritiene egli stesso un eroe o un demonio.
Io non mi impongo limiti in un senso né nell'altro: se per lo scopo il mezzo migliore è la bestemmi, la uso; se è la crassa risata liberatoria, cerco di provocarla; se è la rabbia, la suscito. Ma soprattutto: faccio quello che voglio, quando voglio e come voglio. Perché quello che proprio non reggo è la gente che pretende di imporre agli altri il proprio modo di vivere, pensare, agire.
E poi non dimenticare che la satira non è comicità: spesso si fa confusione.
Spero di averti risposto. Un bacino”.
Alla luce di tutto quanto appena detto, di anni di sterili flame ripetitivi e prevedibili, faccio un ultimo tentativo, davvero l’ultimo, per mostrarvi il perché di certa satira cruda, schietta, onesta, diretta e sconvolgente; il perché l’oggetto prediletto di questa satira non è Monti, ma siete voi. Tutti voi.
E se ancora non avete chiaro il punto, la soluzione è molto più semplice di quanto pensiate: andate a leggere altrove, se non apprezzate la visione ampia e priva di moralismi e giudizi, e smettetela di scarificarci lo scroto, cercando disperatamente di imporci il vostro limitato punto di vista, suddito e bigotto (tu no, topona: a te lo spiego ancora).
* pennone
L’amica di Melissa, 16 anni: “Ho visto la morte in faccia, non voglio più andare a scuola”. “Mamma, ho mal di pancia” non bastava più.
Poche ore dopo aver pubblicato la battuta di cui sopra, ho ricevuto un messaggio da una cara amica, che vado a riportare sotto:
"Clara, scusa se mi permetto, ma il tuo commento sull’amica di melissa mi ha lasciata basita! Inopportuno direi! Ho letto i tuoi vari post nei mesi-molto sono arguti e d'effetto ma quasi tutti a sfondo sessuale e spesso con parolacce. Il punto è che volevo capire come mai... ti porto un esempio: Crozza. Mi piace, ma credo che ecceda nel turpiloquio e x i tuoi post ho la stessa sensazione…"
Inutile negare di aver provato dispiacere nel leggere queste parole, ma non è stato il contenuto: chi bazzica il genere sa bene che sono le stesse obiezioni che ci (mi, ti, vi, CHI?!?) vengono mosse ogniqualvolta si toccano argomenti che non siano triti e ritriti, facili, comodi, moralistici, scontati, Brunetta-nano, Bossi-ignorante, Napolitano-firma, prete-pedofilo, B.-puttaniere e chi più ne ha, più ne metta nell’infinito calderone dei binomi prevedibili di quella “satira” che si può leggere coi neuroni poggiati sul comodino, mentre si sorseggia un bicchiere di barolo chinato accompagnato da un quadratino di cioccolato fondente. No, il mio problema era ovviamente la fonte da cui provenivano tali osservazioni incredule, cioè una persona amica; per cui mi sono sentita in dovere di non liquidarla con il solito “vaffanculo” che riservo (riserviamo, riservi, riservate, riserCHI!?!) a chi si ostina a non capire (come ad esempio G.L.C.:
- UM encefalogramma piatto, questa non è satira sono solo baggianate di pessimo gusto...Puntate sui politici e lasciate stare le discrazie della povera gente.
La satira è pigliare per il culo il potere e non la povera gente....
Con il quale però devo dire che mi sono trattenuta:
- La cosa che mi dà maggior soddisfazione (omissis, ché il blog lo legge anche mia madre ciao mamma) è leggere che la satira debba prendersela coi potenti, quando è evidente che l'unico motivo di questa esternazione è il livore dato dal fatto di non essere tra i suddetti potenti. Che poi proprio per questo dovreste ringraziare che UM non se la prende solo con questo fantomatico "potente", ma anche - oserei dire soprattutto - con chi ha l'invidia del pennone*).
Così ho respirato (inspira, espira, inspira, espira) e ho risposto, come se fosse stata la prima e non la milionesima volta che tentavo di chiarire la cosa:
“Ciao topona,
la risposta a queste ed altre domande la trovi chiara ed asciutta qui:
Manifesto
Prima di leggere questo, però, personalizzo il concetto con parole solo mie.
Iniziamo dal parallelo: Crozza è un buonista populista, che scrive con il solo scopo del plauso massificato. Crozza fa satira comoda e il turpiloquio come lo usa lui ha il solo scopo di riempire spazi vuoti e mantenere desta l'attenzione dell'ascoltatore, che sennò si distrarrebbe annoiato. Crozza è satira compiacente: dà alla gente il contentino che serve a far sì che si sentano compresi e rinuncino a cambiare lo stato delle cose di cui vanno lamentandosi.
La gente sta bene come sta: la gente sta bene quando sta male e può lamentarsi. E la società sta bene quando la gente spreca energie lamentandosi ed indignandosi. "Indignazione", come va di moda, eh? Assieme a "vergogna". Indignazione e vergogna non sono che placebo, non servono a nulla: la gente s'indigna e si convince di aver fatto la propria parte, "Indignamoci tutti!". Ora sì, che stiamo meglio.
La satira nasce come elemento distruttivo, NON costruttivo: la satira rompe gli argini e straccia i limiti in cui l'essere umano si rifugia. La bestemmia, i riferimenti marcatamente sessuali e tutte quelle che vengono definite "volgarità", da un vocabolario che prende i concetti direttamente dalle religioni e da tutte quelle forme di controllo sociale, non sono uno scopo, bensì un mezzo. Se ciò che scrivo ti infastidisce, ti provoca disagio e ti fa pensare "be', avrebbe potuto esprimere lo stesso concetto in altro modo", allora il mio scopo è quasi raggiunto: il disagio deriva da un piccolo/grande scossone che le mie parole hanno dato alle tue costruzioni mentali e, se poi ci pensi, un'altra terminologia non avrebbe assolutamente avuto questo effetto: è facile far proseliti ironizzando sui difetti di un Bossi, di un Monti, di un Berlusconi, ma questo non serve che a creare buoni vs cattivi: la visone manichea del mondo è ciò che tiene l'essere umano incatenato nella sua prigione di tabù imposti. L'essere umano per sua natura non ha tabù e la satira amplifica il suo essere senza tabù, proprio per sottolineare questo.
Ogni battuta, indipendentemente dalla notizia da cui parte, non prende per forza in giro il soggetto della notizia, il bersaglio è il lettore: il lettore che crea mostri e venera eroi, cieco sordo e muto al bene che alberga nei mostri e al male che macchia gli eroi; il lettore che parli di aborto e ti scrive "vorrei che i vostri figli morissero, assassini!" (è successo. Anzi, succede ogni volta). Caso in cui oggetto di scherno è il soggetto della notizia è quando si parla di un personaggio che si ritiene egli stesso un eroe o un demonio.
Io non mi impongo limiti in un senso né nell'altro: se per lo scopo il mezzo migliore è la bestemmi, la uso; se è la crassa risata liberatoria, cerco di provocarla; se è la rabbia, la suscito. Ma soprattutto: faccio quello che voglio, quando voglio e come voglio. Perché quello che proprio non reggo è la gente che pretende di imporre agli altri il proprio modo di vivere, pensare, agire.
E poi non dimenticare che la satira non è comicità: spesso si fa confusione.
Spero di averti risposto. Un bacino”.
Alla luce di tutto quanto appena detto, di anni di sterili flame ripetitivi e prevedibili, faccio un ultimo tentativo, davvero l’ultimo, per mostrarvi il perché di certa satira cruda, schietta, onesta, diretta e sconvolgente; il perché l’oggetto prediletto di questa satira non è Monti, ma siete voi. Tutti voi.
E se ancora non avete chiaro il punto, la soluzione è molto più semplice di quanto pensiate: andate a leggere altrove, se non apprezzate la visione ampia e priva di moralismi e giudizi, e smettetela di scarificarci lo scroto, cercando disperatamente di imporci il vostro limitato punto di vista, suddito e bigotto (tu no, topona: a te lo spiego ancora).
* pennone
mercoledì 23 maggio 2012
venerdì 27 aprile 2012
Tanto Rancore Oscura Infinite Anime
E così mi leggi.
Non pensavo. Ma l’avessi saputo, avrei scommesso – e vinto – che tanto non avresti permesso che ti arrivasse nessuno dei messaggi che mando.
Sai cosa volevo davvero sapere? Se proprio non capisci nulla di ciò che ti circonda o se sei invece prigioniera di quella tua dote che, sicuramente, è nata un tempo lontano per difenderti – bambina - da qualche sgarro dei tuoi adulti importanti, ma che coi decenni hai trasformato in lama a doppio taglio - povera creatura sado-masochista - per legarti indissolubilmente agli altri in un insano rapporto di odio reciproco. Perché sì, hai ragione: le tieni legate a te, le persone, con l’odio. Perché ogni tua subdola parola intrisa di negatività – dolore, pietismo, bile, minacce, manipolazione – scatena reazioni così forti nell’interlocutore prescelto, che questi non può non pensare a te per un tempo direttamente proporzionale alla grammatura di sporco che hai versato nella tua turpe favella.
Mi chiedo come fai a guardarti sempre intorno attraverso questo tuo velo lercio.
E mi chiedo se è davvero questo, che vuoi. Perché se questo è davvero ciò che vuoi, non potresti essere più diversa da me. Io, che lo sporco dai volti degli altri lo pulisco col mio da che ho memoria. Io, che piuttosto che sentirmi odiata preferisco scomparire. Io, che piuttosto che odiare preferisco scomparire.
Non che io sia giusta e tu sbagliata (io, che non giudico gli altri), ché contrariamente a quello che avviene nel tuo mondo, nel mio non esistono persone giuste e persone sbagliate in assoluto, ma persone adatte e persone inadatte a giocare alla vita con me: non ti avrei mai scelta come amica, per intenderci (anche se poi non è nemmeno detto questo, perché un’amica come te l’ho avuta).
Ma poi sai che c’è? Non è vero che vorrei davvero sapere qualcosa di te: non m’interessa come sei o perché sei così. Non m’interressa conoscerti, perché ciò che mi arriva di te mi fa venire l’orticaria e il voltastomaco, quelli veri: mi si riempiono le guance di bolle, la pancia si attorciglia a se stessa, mi passa la fame e sto male. Male finché non mi libero di te sulla tazza (è il nervo vago, si chiama così e lo so, che lo sai, perché era materia dell’esame di ammissione). Io comunque non ti avrei mai voluta. Mi sei capitata così, un pantano sul cammino, ma sei solo uno tra tanti. Non sei niente di speciale, niente di diverso dagli altri ostacoli lungo la strada: mi stanchi, mi bevi energie, ma solo perché io te lo permetto. E solo finché io te lo permetto. Tu non sei niente per me, senza di me.
Io sono il mio soggetto e tu resti per me un oggetto, logoro e brutto come altri passati, compresenti e futuri: e tutti voi oggetti logori e brutti, intralciate il mio cammino perché io ve lo lascio fare. Non pensiate di avere alcun potere su di me, che provenga da voi. Oppure pensatelo pure, non mi è importante il vostro pensiero.
Io, che non ritengo di potermi arrogare il diritto di cambiare un’altra persona, ma che ammetto che vorrei che tu cambiassi e mi lasciassi in pace.
Le persone non sono tue, neppure quelle che sei solita introdurre con un aggettivo possessivo; c’è solo una persona che è tua e tu non riesci a vederla e continuerai a credere di possedere gli altri, finché non la trovi, e ti offenderai e soffrirai ogni volta, perché vivrai l’onta di essere (più o meno) allontanata.
Trova quell’unica persona. Ti do un consiglio: non ti servono gli occhi, per vederla, né le orecchie per sentirla.
Solo trovala e lasciami in pace.
Lasciaci in pace.
Tutti.
lunedì 16 aprile 2012
Coppa di Luna
Altre ne hanno già parlato, qualcuna ne ha già sapientemente illustrato pregi e difetti, portando addirittura la questione sul piccolo schermo ed in prima serata. Ma proprio perché se n’è fatto argomento di amabile conversazione, adesso io voglio dire anche la mia.
Le mestruazioni.
Avete mai fatto caso – se mi rivolgo ora alle lettrici, non me ne vogliate voialtri, esseri dotati di membro esternamente (più o meno) prominente – che noi femminucce abbiamo il vizio di dimostrare simpatia verso una donna appena conosciuta in un modo, uno solo, e cioè introdurla rapidamente e con abile nonchalance nell’allegro mondo dell’altalena del nostro bioritmo emorragico?
- Piacere, Valentina.
- Piacere, Clara.
- Scusa se quando ti guardo giro appena lo sguardo, ma sei proprio in linea con il lampadario al neon e io è tutto il giorno che ho un malditeeesta! Mi devono venire le mie cose.
- Ah, ma dai? Anche a me!
- Ma tu pensa? Che bello!
- Beeello! Ma tu che fai, prendi la pillola?
- Sì. Anche tu?
- Certo! Ma tu quale prendi, quella che ti fa venire la cellulite che poi sembri Jabba o quella che ti inamida le ghiandole mammarie e puoi rompere le noci coi capezzoli?
- No, io prendo quella che mi fa puzzare le ascelle.
- Ah, dai? Devo provarla.
Ecco, questa è una conversazione-tipo tra due ragazze che si stanno simpatiche a pelle, quindi uomini, se siete due amici nel bel mezzo dell’infernale fatidico momento in cui avete deciso di far conoscere le vostre fidanzate, aguzzate le orecchie e state tranquilli: se parlano di ciclo, siete a cavallo. O siete fottuti, dipende dai punti vista.
Anche se pare che di recente sia stata introdotta nei salotti-bene una variante sul tema “fertilità-anticoncezionale”, una nuovo argomento trendy, che ruota attorno al binomio “sanguinamento-arginasanguinamento.” Infatti, grazie ai nuovi traguardi raggiunti dalla ricerca ed alla schiettezza di certi spot pubblicitari – tipicamente verso l’ora di cena – finalmente noi donne-che-ci-stiamo-subito-simpatiche possiamo ritrovarci a discutere non più solo di ormoni, veli di seta con le ali o tappi di cotone con la cordicella: all’insegna del risparmio e della spinta ecologica “ripuliamo il mondo partendo dalle cagate”, qualcuno ha ritenuto necessario cercare un mezzo per tamponare il cadenzato e dispendiose consumismo del corpo femminile, e lo ha trovato in queste Mooncups o Fleurcups - Bloodcups non piaceva a nessuno -, ossia simpatici contenitori di silicone, per raccogliere il surplus mensile che, pillola o non pillola, ci ripresenta il conto ogni 21 – 28 giorni.
Le cups hanno la forma di un calice con lo stelo corto e senza piedino: si inseriscono in vagina schiacciandole con tre dita e, al momento del rilascio, riacquisiscono la forma a bicchiere (che a ben guardare somiglia anche ad una testa di pene), creando un effetto ventosa e aderendo alle pareti interne, onde evitare che, scivolando scivolando, la rossa viscosità riesca a colare fuori dal luogo di raccolta deputato. Poi quando sono pienotte si sfilano, si svuotano, si lavano e ricomincia il canto.
Risultato: niente assorbenti in spazzatura = meno inquinamento, più soldi nel portafoglio da spendere in cose più nobili e meno dannose per il pianeta, come non so ad esempio il pieno all’auto.
Io l’ho vista, la foto di queste bacinelle per vulva. Sì, perché da come te la raccontano in giro per la rete, una si sente mostruosamente in colpa ad usare ancora gli obsoleti argini usa e getta, che poi finiscono col creare inondazioni, ostruendo i letti dei torrenti e bloccando i tombini – che a ben guardare allora significa che tanto assorbenti poi non sono -, soffocare poveri pinguini affamati che non sanno distinguere tra un’alice e un tampax – evidentemente non hanno mangiato la Fiesta a merenda- e allargare ulteriormente il buco nell’ozono – che non so, probabilmente qualcuno ne spara un po’ lassù, pensando che se c’è un buco da cui esce roba, magari qualcosa ci fanno.
Per cui niente: un nodo allo stomaco, una gassa alle budella di brucianti sensi di colpa, per avere il destino del mondo tra le cosce una volta al mese. E allora mi sono informata, per trovare urgentemente il modo di fermare questo scempio e correre ad acquistare le Cups.
Oh, intanto un avvertimento: se avete trovato complesse ed inquietanti le istruzioni nei pacchi di assorbenti interni, però, lasciate perdere la spinta ecologista, perché il taglio in sezione della zona pelvica stilizzato, che ultimamente va tanto di moda un po’ per tutto – dai contraccettivi ai maglioni a collo alto – è riportato ben dettagliato anche qui
Dunque, FAQ:
1. come si mette la Moon/Fleurcup (che poi “moon” ancora ancora la capisco - il ciclo è collegato alle fasi lunari -, ma “fleur” proprio no: mi ricorda la storiella delle api e dei fiori)?
La cup è di silicone morbido, come una tettarella di biberon, quindi se premuta nel palmo di una mano, si accartoccia e rimpicciolisce, rendendo più facile infilarla su per il canale (paura, eh, quando ho detto “su per il c”?).
Allora, anzitutto “bisogna avere le mani pulite”.
Non l’avrei mai detto: io tendenzialmente avevo intenzione di metterla dopo aver tagliato un limone, spalmato il pesce di sale grosso, essermi scaccolata e aver trascorso una mezz’ora buona in metropolitana.
Secondo: la coppa va in vagina solo per la lunghezza del calice, mentre lo stelo deve essere a portata di mano per favorirne poi l’estrazione.
Quindi si prendono tre dita – pollice, indice e medio – e si avvolge con esse il calice, usando tutta la loro lunghezza, per assottigliare l’attrezzo. Un gioco da ragazzi, l’illustrazione aiuta.
A questo punto è il momento di infilarla.
Sì.
Dunque, uno sguardo al pamphlet allegato.
Sì.
Le tre dita sopra citate – pollice, indice, medio – insieme con lo strumento che stanno strizzando, l’accompagnano dentro. Assumo la posizione dell’amazzone a cavallo a pelo (voi ragazze lo so che mi state dietro, per quanto riguarda i fanciulli, usate le vostre peggiori fantasie), inspiro e via: dentro. Ok, fatto.
…
E ora?
Insomma il mio primo dubbio è: le dita, come cavolo le tiro fuori adesso? L’affare deve aderire tipo ventosa alle mie pareti, ma in questo momento attaccate alle suddette pareti ci sono pollice, indice e medio: se le sfilo verso il basso, viene via anche la cosa, come devo fare? Trovato: mi servono due mani? Quella di cui sto usando le tre dita e l’altra che tengo premuta contro allo stelo, per evitare che esca tutto. Ma poi m’ingarbuglio e, come minimo, casco. Alla meglio, casco, perché non so voi, ma io ho la visione fissa della mano che resta incastrata lì: come la scimmia che prende le caramelle dal barattolo e poi non riesce più a tirar fuori il pugno col bottino. Con la beffa che io il bottino devo lasciarlo dentro. O forse devo aprire le dita tipo speculum? Devo usare uno speculum?
Boh. Proseguiamo.
2. Come si toglie la MFcup?
Si sfila.
Bene.
Ma non è lì, che aderisce come uno sticker alla mia vulva? Mica basta tirare. E allora cosa faccio, vado a riproporre al contrario il percorso usato per mettercela? Perché se è così, l’altra immagine che mi sovviene immediatamente è il reflusso: intanto devo introdurre nuovamente pollice, indice e medio, che non è mica come dirla, con l’ambiente occupato dalla coppa (e mi ci vuole prima un po’ di yoga), dopodiché ammesso e non concesso ch’io ci riesca, se torno a spremere il calice, che questa volta è pieno, il contenuto viene proiettato verso l’interno in risalita e hai visto lì che sto cazzo di aggeggio non è servito a nulla.
Anche se, pensandoci, una soluzione c’è: lascio lì le dita per tutte le quattro le ore di permanenza della coppetta.
3. Come si pulisce la Cup?
Intanto vuol dire che si pulisce ed è già un buon segno.
Comunque, si lava come le tettarelle del biberon: in acqua bollente. Sì, perché vorrai mica usare del disinfettante? Che poi finisce nello scarico e inquina.
Ma anche qui mi si presenta un tarlo, l’immagine con la quale vorrei chiudere il post e salutarvi calorosamente: avete presente quando vi avanza del sugo e decidete di surgelarlo, andando dirette sul contenitore di vetro, perché sapete fin troppo bene che quell’alone rossastro dalla plastica non se va nemmeno pregando? Ecco.
Buone mestruazioni a tutte.
Le mestruazioni.
Avete mai fatto caso – se mi rivolgo ora alle lettrici, non me ne vogliate voialtri, esseri dotati di membro esternamente (più o meno) prominente – che noi femminucce abbiamo il vizio di dimostrare simpatia verso una donna appena conosciuta in un modo, uno solo, e cioè introdurla rapidamente e con abile nonchalance nell’allegro mondo dell’altalena del nostro bioritmo emorragico?
- Piacere, Valentina.
- Piacere, Clara.
- Scusa se quando ti guardo giro appena lo sguardo, ma sei proprio in linea con il lampadario al neon e io è tutto il giorno che ho un malditeeesta! Mi devono venire le mie cose.
- Ah, ma dai? Anche a me!
- Ma tu pensa? Che bello!
- Beeello! Ma tu che fai, prendi la pillola?
- Sì. Anche tu?
- Certo! Ma tu quale prendi, quella che ti fa venire la cellulite che poi sembri Jabba o quella che ti inamida le ghiandole mammarie e puoi rompere le noci coi capezzoli?
- No, io prendo quella che mi fa puzzare le ascelle.
- Ah, dai? Devo provarla.
Ecco, questa è una conversazione-tipo tra due ragazze che si stanno simpatiche a pelle, quindi uomini, se siete due amici nel bel mezzo dell’infernale fatidico momento in cui avete deciso di far conoscere le vostre fidanzate, aguzzate le orecchie e state tranquilli: se parlano di ciclo, siete a cavallo. O siete fottuti, dipende dai punti vista.
Anche se pare che di recente sia stata introdotta nei salotti-bene una variante sul tema “fertilità-anticoncezionale”, una nuovo argomento trendy, che ruota attorno al binomio “sanguinamento-arginasanguinamento.” Infatti, grazie ai nuovi traguardi raggiunti dalla ricerca ed alla schiettezza di certi spot pubblicitari – tipicamente verso l’ora di cena – finalmente noi donne-che-ci-stiamo-subito-simpatiche possiamo ritrovarci a discutere non più solo di ormoni, veli di seta con le ali o tappi di cotone con la cordicella: all’insegna del risparmio e della spinta ecologica “ripuliamo il mondo partendo dalle cagate”, qualcuno ha ritenuto necessario cercare un mezzo per tamponare il cadenzato e dispendiose consumismo del corpo femminile, e lo ha trovato in queste Mooncups o Fleurcups - Bloodcups non piaceva a nessuno -, ossia simpatici contenitori di silicone, per raccogliere il surplus mensile che, pillola o non pillola, ci ripresenta il conto ogni 21 – 28 giorni.
Le cups hanno la forma di un calice con lo stelo corto e senza piedino: si inseriscono in vagina schiacciandole con tre dita e, al momento del rilascio, riacquisiscono la forma a bicchiere (che a ben guardare somiglia anche ad una testa di pene), creando un effetto ventosa e aderendo alle pareti interne, onde evitare che, scivolando scivolando, la rossa viscosità riesca a colare fuori dal luogo di raccolta deputato. Poi quando sono pienotte si sfilano, si svuotano, si lavano e ricomincia il canto.
Risultato: niente assorbenti in spazzatura = meno inquinamento, più soldi nel portafoglio da spendere in cose più nobili e meno dannose per il pianeta, come non so ad esempio il pieno all’auto.
Io l’ho vista, la foto di queste bacinelle per vulva. Sì, perché da come te la raccontano in giro per la rete, una si sente mostruosamente in colpa ad usare ancora gli obsoleti argini usa e getta, che poi finiscono col creare inondazioni, ostruendo i letti dei torrenti e bloccando i tombini – che a ben guardare allora significa che tanto assorbenti poi non sono -, soffocare poveri pinguini affamati che non sanno distinguere tra un’alice e un tampax – evidentemente non hanno mangiato la Fiesta a merenda- e allargare ulteriormente il buco nell’ozono – che non so, probabilmente qualcuno ne spara un po’ lassù, pensando che se c’è un buco da cui esce roba, magari qualcosa ci fanno.
Per cui niente: un nodo allo stomaco, una gassa alle budella di brucianti sensi di colpa, per avere il destino del mondo tra le cosce una volta al mese. E allora mi sono informata, per trovare urgentemente il modo di fermare questo scempio e correre ad acquistare le Cups.
Oh, intanto un avvertimento: se avete trovato complesse ed inquietanti le istruzioni nei pacchi di assorbenti interni, però, lasciate perdere la spinta ecologista, perché il taglio in sezione della zona pelvica stilizzato, che ultimamente va tanto di moda un po’ per tutto – dai contraccettivi ai maglioni a collo alto – è riportato ben dettagliato anche qui
Dunque, FAQ:
1. come si mette la Moon/Fleurcup (che poi “moon” ancora ancora la capisco - il ciclo è collegato alle fasi lunari -, ma “fleur” proprio no: mi ricorda la storiella delle api e dei fiori)?
La cup è di silicone morbido, come una tettarella di biberon, quindi se premuta nel palmo di una mano, si accartoccia e rimpicciolisce, rendendo più facile infilarla su per il canale (paura, eh, quando ho detto “su per il c”?).
Allora, anzitutto “bisogna avere le mani pulite”.
Non l’avrei mai detto: io tendenzialmente avevo intenzione di metterla dopo aver tagliato un limone, spalmato il pesce di sale grosso, essermi scaccolata e aver trascorso una mezz’ora buona in metropolitana.
Secondo: la coppa va in vagina solo per la lunghezza del calice, mentre lo stelo deve essere a portata di mano per favorirne poi l’estrazione.
Quindi si prendono tre dita – pollice, indice e medio – e si avvolge con esse il calice, usando tutta la loro lunghezza, per assottigliare l’attrezzo. Un gioco da ragazzi, l’illustrazione aiuta.
A questo punto è il momento di infilarla.
Sì.
Dunque, uno sguardo al pamphlet allegato.
Sì.
Le tre dita sopra citate – pollice, indice, medio – insieme con lo strumento che stanno strizzando, l’accompagnano dentro. Assumo la posizione dell’amazzone a cavallo a pelo (voi ragazze lo so che mi state dietro, per quanto riguarda i fanciulli, usate le vostre peggiori fantasie), inspiro e via: dentro. Ok, fatto.
…
E ora?
Insomma il mio primo dubbio è: le dita, come cavolo le tiro fuori adesso? L’affare deve aderire tipo ventosa alle mie pareti, ma in questo momento attaccate alle suddette pareti ci sono pollice, indice e medio: se le sfilo verso il basso, viene via anche la cosa, come devo fare? Trovato: mi servono due mani? Quella di cui sto usando le tre dita e l’altra che tengo premuta contro allo stelo, per evitare che esca tutto. Ma poi m’ingarbuglio e, come minimo, casco. Alla meglio, casco, perché non so voi, ma io ho la visione fissa della mano che resta incastrata lì: come la scimmia che prende le caramelle dal barattolo e poi non riesce più a tirar fuori il pugno col bottino. Con la beffa che io il bottino devo lasciarlo dentro. O forse devo aprire le dita tipo speculum? Devo usare uno speculum?
Boh. Proseguiamo.
2. Come si toglie la MFcup?
Si sfila.
Bene.
Ma non è lì, che aderisce come uno sticker alla mia vulva? Mica basta tirare. E allora cosa faccio, vado a riproporre al contrario il percorso usato per mettercela? Perché se è così, l’altra immagine che mi sovviene immediatamente è il reflusso: intanto devo introdurre nuovamente pollice, indice e medio, che non è mica come dirla, con l’ambiente occupato dalla coppa (e mi ci vuole prima un po’ di yoga), dopodiché ammesso e non concesso ch’io ci riesca, se torno a spremere il calice, che questa volta è pieno, il contenuto viene proiettato verso l’interno in risalita e hai visto lì che sto cazzo di aggeggio non è servito a nulla.
Anche se, pensandoci, una soluzione c’è: lascio lì le dita per tutte le quattro le ore di permanenza della coppetta.
3. Come si pulisce la Cup?
Intanto vuol dire che si pulisce ed è già un buon segno.
Comunque, si lava come le tettarelle del biberon: in acqua bollente. Sì, perché vorrai mica usare del disinfettante? Che poi finisce nello scarico e inquina.
Ma anche qui mi si presenta un tarlo, l’immagine con la quale vorrei chiudere il post e salutarvi calorosamente: avete presente quando vi avanza del sugo e decidete di surgelarlo, andando dirette sul contenitore di vetro, perché sapete fin troppo bene che quell’alone rossastro dalla plastica non se va nemmeno pregando? Ecco.
Buone mestruazioni a tutte.
giovedì 12 aprile 2012
S'i' fossi omo.
Ultimamente ho letto cose tipo se scoprissi di star per morire farei questo e poi se diventassi ricco farei quello e ho pensato quale se fossi farei cosa manca e l’ho trovato eccolo:
S’i’ fossi omo.
Mi sono detta qualche giorno fa che avrei davvero voluto scrivere un pezzo esilarante sulla situazione più inconcepibile di tutte: l’eventualità di riprendere coscienza dal buio del sonno e ritrovarmi imprigionata in un cromosoma che non mi appartiene.
Sì perché grattatevi le palle – voi che potete -, ma non è poi così impossibile svegliarsi una mattina e scoprire di non avere che pochi giorni di vita rimasti.
Così come non è del tutto assurdo il caso di venire baciati dalla dea bendata e vincere un triliardo di ludibrioni.
Mentre dovete ammettere che il cambio di sesso per intervento divino è successo davvero a pochi, cioè si contano sulle dita di una mano, cioè in tutta onestà me ne viene in mente solo uno.
Così niente, mi sono stesa sul letto e ho iniziato a sentire il mio corpo di femmina, dalle dita dei piedi smaltate di fucsia, su verso le caviglie sottili, le gambe lisce, le cosce profumate di crema al miele – no era prima, che potevate grattarvi - e il mio centro energetico proprio sotto alla pancia vellutata: insomma, una percezione totale del mio fisico essere donna.
Poi ho lasciato la mente libera di vagare, di perdersi come se stesse sognando, in quello stato di quasi sonno in cui invece siamo senza corpo, né maschi né femmine, o forse sia maschi che femmine, o qualcosa di differente ancora, che comunque da svegli non possiamo concepire. E ho dormito.
E alla fine ho aperto gli occhi ed ero uomo.
No, falso. Ero solo una donna con un pene, perché la mia prima preoccupazione è stata “e adesso questo come lo spiego al mio bimbo?”.
Ma porca troia, riesco a visualizzare di svegliarmi uomo, e non riesco ad immaginarmi di non avere il pupo nella stanza accanto!
E però toh, sono molto più sboccata del solito: sarà il testosterone.
Niente, esperimento fallito, post a bagasce: non riesco a scherzarci sopra, quindi scordatevi il pezzo esilarante che vi avevo promesso. Insomma, sono uomo da diciannove secondi e mi sento come se avessi già fatto la mia prima cilecca.
E inoltre sono distratta. C’è un pensiero fisso che mi ossessiona, un’immagine, un concetto impalpabile, ma indubbiamente bellissimo, che si fa pivot dei miei ragionamenti: ho un pene.
Che poi parliamoci chiaro, mio figlio ha otto anni, è ancora in un’età – beata innocenza- che basta andar di là e dirgli la verità e lui non si pone proprio il problema: la mamma è diventata uomo, bon, punto.
Quindi s’i’ fossi omo:
1. spiego al bimbo che per magia m’è spuntato un pisellone, lo vesto, gli preparo la colazione, lo porto alla fermata dello scuolabus fingendomi uno zio e se ne riparla nel pomeriggio. Tale e quale a quando sono donna.
Ho un pene.
Però intanto con tutti questi pensieri mi sono persa la mia prima erezione, dio bono: ho trentatré anni, il mattino ha l’oro in bocca, puttana Eva!
E sono sempre più sboccato.
E guarda un po’ che s’i’ fossi omo:
2. inizio a parlare al maschile.
Rientro in casa e mi spoglio: nudo davanti allo specchio. No, nudo, no, mi metto la vestaglia, ché con la luce che c’è, mi vergogno: si vede la cellulite. Ma poi, pensandoci, s’i’ fossi omo:
3. forse forse la cellulite non c’è.
Dai, mi guardo scostando un poco questa stoffa trapuntata a fiori assolutamente antistupro (“antistupro” è proprio un termine da donna).
Però parto a specchiarmi dall’alto.
Ho un pene.
I capelli e… dio che brutti piedi! Ma cos’è un ciuffo di peli, quello lì sull’alluce? Cazzo, sì che è un ciuffo di peli! Fin dove riescono a crescere, questi maledetti? Ma forse la domanda corretta è s’i’ fossi omo:
4. dove non riescono a crescere, questi stramaledetti?
Dio, guarda sotto le ascelle.
Cristo, guarda in faccia! Dove merda ho messo le mie pinzette? E improvvisamente realizzo oh, cielo, s’i’ fossi omo:
5. sono una checca isterica.
Però in effetti sono quasi glabro, non sarà che ho poco testosterone?
Oh, no! E s’i’ fossi omo:
6. SE FOSSI IMPOTENTE?!?
Ho un pene.
Ventitré minuti. Sono uomo da ventitré minuti e sto pensando al sesso ora per la prima volta: vedi che non è vero, che non pensiamo ad altro? Ho pensato al coso, lì, come si chiama, il piccolo umano. Poi ai peli. No, prima che ai peli all’erezione mancata, ma era mancata quindi non conta come sesso.
E poi ho un pene.
Comunque non riesco a togliergli gli occhi di dosso; non posso fare a meno di ammirarlo con certo rispetto e reverenzia: sei proprio bello.
Ma guardati, hai scritto “potenza” ovunque: sei ENORME.
S’i’ fossi omo:
6. parlo di “lui” con “lui”.
Ho un pene.
Ventisei minuti e ancora non ho avuto il coraggio di toccarti. Nemmeno una carezza, un pizzico, una spostatina da una parte all’altra del cavallo dei pantaloni. S’i’ fossi omo:
7. mi chiedo con timore se non ci sia una qualche comprovata teoria scientifica alla base di quella cosa che si diventa ciechi. Sono sempre stato per le verifiche empiriche.
Chissà se sono rimasto elastico e snodato come nel mio corpo a doppia X, perché forse s’i’ fossi omo:
8. potrei unire il meglio delle due coppie cromosomiche e provare quella cosa dell’autofellatio…
mmm a u t o f e l l a t i o…
Oppure, no, fermi tutti, tu stai buono lì che ho un idea (e un pene): potrei chiamare quella mia amica lontana che mi piace tanto, spiegarle la faccenda e s’i’ fossi omo:
9. no, sono ancora troppo femmina per non pensare che se vedo la mia amica nuda e lei è più bella di me ci resto troppo male. Niente.
S’i’ fossi omo:
10. torno sull’autofellatio…mmm a u t o f e l l a t i o…
Oppure, no, fermi tutti, tu stai buono lì che ho un idea (e un pene): il mio fidanzato! Se gli dimostro che sotto a quella Y ci sono io, magari riesce a soprassedere sul fatto che
ho un pene.
S’i’ foss’ omo:
11. alla fine ho un uomo, quindi sono gay.
Oppure il mio compagno mi lascia e a quel punto mi resta solo mmm a u t o f e l l a t i o…
* * *
E così ho perso la visualizzazione e sono tornata stesa sul letto: ho sentito il mio corpo di femmina, dalle dita dei piedi smaltate di fucsia, su verso le caviglie sottili, le gambe lisce, le cosce profumate di crema al miele ed il mio centro energetico proprio sotto alla pancia vellutata: insomma, una percezione totale del mio fisico essere donna.
E mi sono svegliata.
- Ben svegliata, Amore. Hai dormito bene? Guarda un po’ cos’ho io qui: un pene.
lunedì 2 aprile 2012
Tempo debito
Se ti chiedo qualcosa in prestito e tu accetti di concedermelo, sono tuo debitore; se ti domando aiuto e tu decidi di darmelo, siamo pari.
Perciò smettila, di tenere il conto delle volte che mi fai un favore, smetti di rinfacciarmi "quella volta che".
Perciò smettila, di tenere il conto delle volte che mi fai un favore, smetti di rinfacciarmi "quella volta che".
Perché se mi dai una mano per sentirti più importante, se mi dai una mano per farmi sentire più piccola, se mi dai una mano per ingrassare il tuo orgoglio e succhiare le mie energie, io non sono che quella che tu stai sfruttando, tu egoista travestito da altruista, e non ti devo proprio nulla.
domenica 25 marzo 2012
Fiaba
La stanza era gremita come sempre, gli animi già caldi: centinaia di occhi brillavano d’impazienza, in quegli istanti di attesa che precedevano il suo ingresso in scena.
Clara lo sapeva anche senza guardare, un po’ per esperienza e un po’ perché l’eccitazione degli spettatori era densa e palpabile, così tanto che nell’aria la si poteva quasi vedere: era come quando si aprono le finestre di una stanza riscaldata, mentre fuori l’aria è sottozero; o l’effetto dell’asfalto bollente che trema in lontananza, miraggio nero di catrame sotto il sole d’agosto.
Il discorso che stava per tenere davanti a quei visi affamati e folli era ormai lo stesso da tempo e negli anni aveva raggiunto la perfezione: semplice, logico, consequenziale, prendeva per mano chi lo ascoltava per condurlo naturalmente verso quella che alla fine diventava chiaro a tutti, che fosse l’unica conclusione possibile.
Ma non era sempre stato così facile: Clara si ricordava ancora bene le prime volte, quando si era trovata a doversi scontrare dapprima con l’indifferenza, poi la con la diffidenza, fino ad arrivare ad un momento in cui la gente aveva addirittura avuto paura di lei. Ed era stato proprio quello, il momento in cui aveva capito che, forse, le sue parole stavano muovendo qualcosa; l’attimo fragile in cui le sue idee stavano gettando semi nei cuori della gente intorno, semi che avrebbero potuto germogliare e fiorire, se solo lei fossi riuscita farli sentire tutti al sicuro.
Perché Clara sapeva, che una sola persona può cambiare il mondo: da Gesù Cristo a Giulio Cesare, da Gandhi a Harvey Milk, da Carlo Magno a Bill Gates, in un susseguirsi di nomi e cognomi di persone giuste, al momento giusto. E poteva esserlo anche lei, perché era il momento giusto e la gente se la meritava, infine, una via d’uscita verso la libertà quella vera, quella che li avrebbe resi finalmente tutti indipendenti, autonomi e responsabili: uomini e donne consapevoli e felici.
“La parola “crisi” non manca un discorso ormai da diversi anni: ce la portiamo dietro da tempo (o forse è lei, che si trascina dietro noi), come l’inopportuna compagna di viaggio che nessuno ha invitato, ma che si è presentata lì sul pullman con le valigie già pronte ed è partita con noi. Non aveva neppure il biglietto, a pensarci bene, eppure nessuno ha pensato di controllare: ce la siamo trovata seduta accanto e abbiamo cominciato ad andare, infastiditi, ma dando la sua presenza per inevitabile. Insomma, una clandestina dichiarata che nessuno voleva, ma che tutti abbiamo lasciato salire e così, rosi dal senso di colpa, abbiamo scelto la via più facile: attribuirle la responsabilità unica ed incontestata di ogni situazione storta.
(Breve parentesi su una questione che mi fa ridere di gusto: grazie alla parola crisi siamo diventati amici anche del termine “spread”, che fino a poco tempo fa, correggetemi se sbaglio, nessuno di noi aveva mai neppure sentito nominare. E invece ad oggi ne siamo diventati conoscitori tanto esperti, che oltre ad essere il primo ragguaglio che chiediamo ai notiziari appena svegli, prima ancora di dare il buongiorno alla persona cara, riusciamo abilmente ad infilarlo in ogni frase: al bar, in ufficio, durante il Cenone e persino dalla parrucchiera. Un po’ come sto facendo io adesso)
.
E parliamo di fantastiglioni di paperdollari di debito pubblico (che se è pubblico è anche mio, nonostante io tutti questi soldi non li abbia mai visti), cui imputiamo in coppia con “crisi” tutti i nostri problemi, da cui ci sentiamo ormai così schiacciati e oppressi, che un po’ per il peso in sé, un po’ per risparmiare, ci siamo ridotti a vivere in 2D.
E quando arriva l’inverno, poi, come accade ogni anno, una volta l’anno? Da quando abbiamo la crisi (e lo spread) sul nostro autobus, pare ci occorrano colpevoli persino per eventi prevedibili come le stagioni, da cui ci lasciamo cogliere del tutto impreparati: i trasporti si fermano un po’ di più, vetusti cumuli di lamiere bloccati in bozzi di ghiaccio; la neve sconfigge la nostra quotidianità, ormai affidata a ritmi innaturali di cui ogni variazione climatica ci sbatte in faccia l’artificiosità; il freddo uccide un sempre crescente numero di persone che non hanno una casa o di persone che una casa ce l’hanno, ma è una che non le ripara dalla morsa del gelo, perché i trasporti bloccati, i ritmi mandati all’aria e l’economia che non gira non portano più energia o gas o entrambi.
In questa situazione di ordinario maltempo, abitudinario malessere, solita rassegnazione e sterile indignazione, ricordo quando giunse voce di una signora, che da qualche parte aveva aperto il suo albergo di trenta camere ai senzatetto, affinché questi trascorressero al riparo il tempo necessario a che il gelo passasse (almeno fino al prossimo, ennesimo, ciclico e prevedibile inverno) e la cosa aveva fatto notizia e scalpore.
Fate cenno di sì, la ricordate anche voi: praticamente questa signora è diventata famosa. Ma vi siete chiesti perché questa signora è diventata famosa? Vi siete risposti che è perché ha compiuto un gesto altruistico, perché ha verosimilmente contribuito a salvare delle vite, ma non è così. La spiegazione è meno immediata e molto più triste: questa signora è diventata famosa perché è UNA. Una persona, che ha risolto momentaneamente a trenta persone il problema della dimora. Fanno trentuno persone in tutto, coinvolte direttamente in questa faccenda. Trentuno. Quanti siamo nel nostro Paese? Quanti in Europa? E nel cosiddetto mondo civilizzato?
“Tutti dovrebbero avere una casa, cibo a sufficienza, abiti adeguati, la possibilità di scaldarsi quando fa freddo”. Quante volte l’avete sentito, detto o pensato?
Per la strada si raccolgono interviste a uomini e donne con lo sguardo contrito, che si dicono partecipi della sofferenza di chi sta peggio; interviste a uomini e donne con i volti rassegnati, buttati a terra sotto i portici della capitale come foglie secche, indurite dal vento e dal sole; interviste a giovani arrabbiati, che con i loro cartelli ed i loro canti vorrebbero salvare il mondo, ridistribuendo la ricchezza all’interno di questa società. E dibattiti: dibattiti in televisione, dibattiti online, dibattiti in radio per decidere chi ha la colpa e chi può aiutarci ad uscire da questo pantano economico, con quali tagli, quali investimenti, quali tasse, quali agevolazioni. All’interno di questo sistema, dove nulla pare funzionare, dove c’è sempre chi resta indietro, dove nessuno riesce ad annullare l’ingiustizia. Perché questo sistema all’interno è sbagliato.
E se allora tutti, da subito, insieme, adesso, provassimo a uscire, da questo sistema? Se tutti vedessimo che non siamo in una gabbia senza via d’uscita, ma che siamo in una gabbia che è aperta su di un lato e che andarcene sta solo a noi, che siamo padroni di uscirne, anche se molti non riescono ancora a scorgere quello che c’è all’esterno? Perché avere paura di uscire nell’ignoto, se tanto dentro non stiamo bene?
Tutti dovrebbero avere una casa, cibo a sufficienza, abiti adeguati, la possibilità di scaldarsi quando fa freddo, vero? Tu sei d’accordo? E tu? Lei, laggiù, signora? E tu lì dietro? Dite tutti sì.
Ma non lo pensate davvero. Nessuno lo pensa davvero, neppure quelli che una casa non ce l’hanno, quelli che sono senza cibo, senza abiti adeguati.
No, non lo crediamo davvero, perché se ci credessimo, se ne fossimo intimamente convinti, se non ci fossimo lasciati lavare via la consapevolezza dei nostri diritti da un sistema economico basato sul debito e quindi sulla povertà, sull’infelicità, su un denaro che è solo carta straccia, se lo credessimo tanto da non doverci nemmeno porre il problema se sia o meno un diritto, non ci sarebbero persone che ne sarebbero state private. E non ci sarebbe crisi, né spread, né debito, né economia, né denaro.
Perché se abitare è un diritto, non c’è affitto: non c’è l’idea di guadagnare con un’abitazione, perché è mio diritto averla, è tuo diritto averla, è suo diritto, è loro diritto. Perché è diritto di tutti.
Perché se mangiare è diritto, non c’è spesa: non c’è l’idea di dover guadagnare per consentire al prossimo di sfamarsi, perché nutrirsi è suo diritto. Tuo diritto, mio, loro.
Perché se l’abito è un diritto, non c’è l’idea di guadagnare per vestire me, te, lui, lei, loro.
Perché se l’energia è un diritto.
Perché se l’istruzione è un diritto.
Perché se l’intrattenimento è un diritto.
Perché se la salute è diritto.
Perché se la vita è un diritto.
Se la vita è un diritto, quale che sia il ruolo che ognuno di noi decide di assumere nella società – se adoperarsi per creare abitazioni, nutrire, fornire abiti, energia, diffondere istruzione, occuparsi della salute, intrattenere -, non abbiamo poi bisogno di nessuna moneta sonante, né di nessun di pezzo di carta frusciante, per avere accesso a tutto quanto ci spetta - un’abitazione, cibo, vestiti, energia, istruzione, salute, intrattenimento-: ce lo garantiamo naturalmente a vicenda, senza pensare che sia uno scambio, senza baratti e senza invidia.
Solo perché è un diritto”.
La platea era incontenibile, le ovazioni incommensurabili, gli applausi scroscianti. La voce di Clara aveva gridato le ultime parole, in un crescendo di emozione e decibel, come ogni volta, ogni volta che era per lei come se fosse la prima, perché non c’era affettazione: solo convinzione, coinvolgimento e speranza. E tanto amore.
Per questo la folla l’acclamava sempre, per questo era accolta sempre col medesimo calore e per questo riusciva a toccare i cuori di tutti quelli che l’ascoltavano. E che nascevano a nuova vita. E che si sarebbero precipitati fuori, per condividere quella nuova luce che risplendeva dentro ognuno, una luce di libertà e liberazione.
Ma come ogni volta, arrivavano implacabili gli infermieri con le loro siringhe piene di chimica: distruttrici di volontà ed entusiasmo, disruttrici del sentire e della consapevolezza, distruttrici del pensiero libero, obliteratrici del diverso.
Le concedevano di parlare una volta la settimana –una volta ogni quindici giorni, quando capitava che qualcuno non si fosse comportato a modo. Era il premio della domenica, come il gelato: una fiaba della buonanotte che agitava gli animi, ma che tutto sommato non faceva molti danni, se sedati per tempo.
Ma nonostante gli anni trascorsi da reclusa, gli anni di chimica e repressione, nonostante l’alienamento e l’oblio, Clara se la ricordava ancora quella volta: la volta in cui avrebbe potuto, l’attimo fragile in cui le sue idee stavano gettando semi nei cuori della gente intorno, semi che avrebbero potuto germogliare e fiorire. Perché Clara non era la sola a saperlo, che una persona può cambiare il mondo: lo sapevano anche quelli che il mondo non volevano che potesse cambiare mai; quelli che tenevano sotto controllo le persone giuste, per evitare che rischiassero di arrivare al momento giusto. Quelli l’avevano rinchiusa lì, per obliterare il diverso.
martedì 13 marzo 2012
Il bene della famiglia
Io ho fatto di tutto per tenere le cose in piedi e la famiglia unita: i sacrifici, che ho fatto, li so solo io.
Ve l’ho già raccontato un milione di volte almeno, no? Un milione o giù di lì. Lui non doveva fare niente, mai niente; mi occupavo di tutto io e lui non doveva nemmeno pensare: io prendevo tutte le decisioni per la coppia e per il bambino, io stabilivo i ritmi, io soddisfacevo i gusti di tutti – che coincidevano sempre, perché siamo una famiglia - io mi preoccupavo di scandire le ore di veglia e sonno, distribuivo doveri e piaceri; io mantenevo i rapporti sociali, io gestivo l’immagine della famiglia sulla base di quello che ritenevo più opportuno per tutti quanti, sulla base di quello che gli altri volevano vedere. Io amministravo persino il denaro: a lui non restava che il compito di portarlo a casa. Il compito di guadagnarne quanto io stabilivo che ci servisse. E farlo attraverso un impiego che gli desse un tono, che corrispondesse a quell’immagine di noi che avevo deciso. Per noi.
Lui invece non c’era mai: era sempre assente per lavoro, anche durante quella manciata di ore che trascorreva a casa. Sembrava che il lavoro fosse più importante di noi ed io questa cosa non l’ho mai capita. Al mattino usciva all’alba e prendeva il caffè in autogrill: non voleva nemmeno fare colazione con me, solo perché l’aspettavano due ore di traffico. Cosa gli costava, cinque minuti per un po’ di latte e biscotti? Avrebbe potuto essere il momento giusto per metterlo al corrente dei progetti che avevo fatto per la nostra vita, dei passi che avevo iniziato a fare per far sì che quei progetti prendessero piede. La sera non cenava mai con noi, perché c’era sempre una riunione, una presentazione, una videoconferenza. E poi non so come facevo a sopportare tutto, ma c’era questo traffico anche al rientro, per cui magari usciva dall’ufficio alle nove, dieci di sera, ma non tornava prima delle undici: vi rendete conto di come passavo le giornate? Tutto sulle mie spalle. Alla fine, quando rientrava ero distrutta. Eppure aspettavo sveglia, per parlargli di quei corsi cui avevo iscritto il piccolo, che tutte le mie amiche ci mandavano i figli e noi non potevamo certo essere da meno; oppure mostrargli le brochures delle vacanze che avevo prenotato (che tanto lui avrebbe trascorso il tempo al computer a fare cose per i colleghi). Non si accorgeva neppure dei miei vestiti nuovi, delle scarpe; non vedeva i risultati dei massaggi, che avevo un corpo da fare invidia, e non capiva mai qual era il giorno della settimana in cui andavo dal parrucchiere. E dopo tutto questo, voleva anche fare l’amore. Ma io mi rifiutavo sempre, perché era fin troppo evidente che non mi rispettasse.
Distaccato, insensibile, apatico, pessimista, distruttivo, noioso.
E poi c’è stata la depressione. Come se non bastasse già il resto. Come fa uno che non deve pensare a nulla, della sua vita, a farsi venire la depressione? Ma io lo so, che era solo un modo per attirare ulteriormente l’attenzione su di sé. E l’ennesimo peso sulle mie spalle: gliel’ho trovato io, il medico, ve l’ho già detto? Abbiamo discusso insieme la cura, io e lo psichiatra. Abbiamo visto insieme quello che sarebbe stato meglio per lui, il dottore ed io.
Finché quell’ingrato, insensibile, egoista, irrispettoso, ha deciso di lasciare: mollare, cedere, abbandonare tutto quello che avevo costruito. Debole, vigliacco, che da solo non avrebbe saputo neppure abbinare la camicia alle calze, perché non aveva mai deciso cosa indossare in vita sua, perché i vestiti glieli avevo sempre scelti io. E non sarebbe nemmeno stato in grado di nutrirsi, sapete? Perché la spesa la facevo io e io sceglievo cosa mangiare e io preparavo i menù e le porzioni.
Quando se n’è andato sapevo che non faceva sul serio: sapevo che sarebbe durato poco, perché era solo il capriccio di una crisi di mezza età. Ho provato a spiegargli numerose volte che andarsene non era ciò che voleva; ho provato a fargli capire che le sensazioni che provava erano fasulle e comunque sbagliate; ho cercato di mostrargli i suoi veri pensieri, perché quelli che esponeva lui, parola mia, erano talmente ridicoli e così lontani dall’immagine che avevo costruito nel tempo, pezzo dopo pezzo, un tassello dopo l’altro.
Ma ho sempre avuto un ascendente forte, su di lui: conoscevo le sue debolezze e le sue paure e avevo lavorato di cesello perché non si smussassero col tempo e, anzi, affinché prendessero la forma che desideravo io, quella che più mi tornava utile per manipolarlo a mio piacere. Quanti sensi di colpa, che sono stata in grado di fargli venire; quante volte deve essersi pentito di quello che si è permesso di fare; quante volte gliel’avrò fatto capire che è mio. Tutto mio. Perché nessuno può volermi lasciare e nessuno può lasciarmi.
Era mio: io l’avevo costruito e lui non aveva il diritto di voler vivere lontano da me. Non aveva il diritto di essere diverso da come l’avevo disegnato, non aveva il diritto di essere felice, non aveva il diritto di essere: l’avevo creato perché non lo volesse nessun’altra, perché non si volesse neppure da solo.
Sarebbe tornato, se non fosse stato per quella puttana che si è messa in mezzo. Anche se non sopportavo quello che era diventato, anche se non potevo guardarlo negli occhi senza vomitare, anche se detestavo tutto quello che faceva, anche se mi veniva voglia di picchiarlo forte quando sentivo la sua voce, doveva tornare. Era andato via da due anni, ormai era tempo: non potevo più sopportare quell’immagine di fallimento, che essere una donna separata trasmetteva a tutti i miei conoscenti.
Io l’avevo plasmato affinché non piacesse a nessuno, neppure a se stesso. Ha avuto solo quello che si meritava, quella puttana rovina-famiglie.
Per fortuna con il mio bambino è diverso: lui sarà perfetto.
Ho qui una sua foto: vuole vederla,Vostro Onore?
Iscriviti a:
Commenti (Atom)