martedì 13 marzo 2012

Il bene della famiglia

Io ho fatto di tutto per tenere le cose in piedi e la famiglia unita: i sacrifici, che ho fatto, li so solo io.
Ve l’ho già raccontato un milione di volte almeno, no? Un milione o giù di lì. Lui non doveva fare niente,  mai niente; mi occupavo di tutto io e lui non doveva nemmeno pensare: io prendevo tutte le decisioni per la coppia e per il bambino, io stabilivo i ritmi, io soddisfacevo i gusti di tutti – che coincidevano sempre, perché siamo una famiglia - io mi preoccupavo di scandire le ore di veglia e sonno, distribuivo doveri e piaceri; io mantenevo i rapporti sociali, io gestivo l’immagine della famiglia sulla base di quello che ritenevo più opportuno per tutti quanti, sulla base di quello che gli altri volevano vedere. Io amministravo persino il denaro: a lui non restava che il compito di portarlo a casa. Il compito di guadagnarne quanto io stabilivo che ci servisse. E farlo attraverso un impiego che gli desse un tono, che corrispondesse a quell’immagine di noi che avevo deciso. Per noi.

Lui invece non c’era mai: era sempre assente per lavoro, anche durante quella manciata di ore che trascorreva a casa. Sembrava che il lavoro fosse più importante di noi ed io questa cosa non l’ho mai capita. Al mattino usciva all’alba e prendeva il caffè in autogrill: non voleva nemmeno fare colazione con me, solo perché l’aspettavano due ore di traffico. Cosa gli costava, cinque minuti per un po’ di latte e biscotti? Avrebbe potuto essere il momento giusto per metterlo al corrente dei progetti che avevo fatto per la nostra vita, dei passi che avevo iniziato a fare per far sì che quei progetti prendessero piede. La sera non cenava mai con noi, perché c’era sempre una riunione, una presentazione, una videoconferenza. E poi non so come facevo a sopportare tutto, ma c’era questo traffico anche al rientro, per cui magari usciva dall’ufficio alle nove, dieci di sera, ma non tornava prima delle undici: vi rendete conto di come passavo le giornate? Tutto sulle mie spalle. Alla fine, quando rientrava ero distrutta. Eppure aspettavo sveglia, per parlargli di quei corsi cui avevo iscritto il piccolo, che tutte le mie amiche ci mandavano i figli e noi non potevamo certo essere da meno; oppure mostrargli le brochures delle vacanze che avevo prenotato (che tanto lui avrebbe trascorso il tempo al computer a fare cose per i colleghi). Non si accorgeva neppure dei miei vestiti nuovi, delle scarpe; non vedeva i risultati dei massaggi, che avevo un corpo da fare invidia, e non capiva mai qual era il giorno della settimana in cui andavo dal parrucchiere. E dopo tutto questo, voleva anche fare l’amore. Ma io mi rifiutavo sempre, perché era fin troppo evidente che non mi rispettasse.

Distaccato, insensibile, apatico, pessimista, distruttivo, noioso.

E poi c’è stata la depressione. Come se non bastasse già il resto. Come fa uno che non deve pensare a nulla, della sua vita, a farsi venire la depressione? Ma io lo so, che era solo un modo per attirare ulteriormente l’attenzione su di sé. E l’ennesimo peso sulle mie spalle: gliel’ho trovato io, il medico, ve l’ho già detto? Abbiamo discusso insieme la cura, io e lo psichiatra. Abbiamo visto insieme quello che sarebbe stato meglio per lui, il dottore ed io.

Finché quell’ingrato, insensibile, egoista, irrispettoso, ha deciso di lasciare: mollare, cedere, abbandonare tutto quello che avevo costruito. Debole, vigliacco, che da solo non avrebbe saputo neppure abbinare la camicia alle calze, perché non aveva mai deciso cosa indossare in vita sua, perché i vestiti glieli avevo sempre scelti io. E non sarebbe nemmeno stato in grado di nutrirsi, sapete? Perché la spesa la facevo io e io sceglievo cosa mangiare e io preparavo i menù e le porzioni.

Quando se n’è andato sapevo che non faceva sul serio: sapevo che sarebbe durato poco, perché era solo il capriccio di una crisi di mezza età. Ho provato a spiegargli numerose volte che andarsene non era ciò che voleva; ho provato a fargli capire che le sensazioni che provava erano fasulle e comunque sbagliate; ho cercato di mostrargli i suoi veri pensieri, perché quelli che esponeva lui, parola mia, erano talmente ridicoli e così lontani dall’immagine che avevo costruito nel tempo, pezzo dopo pezzo, un tassello dopo l’altro.

Ma ho sempre avuto un ascendente forte, su di lui: conoscevo le sue debolezze e le sue paure e avevo lavorato di cesello perché non si smussassero col tempo e, anzi, affinché prendessero la forma che desideravo io, quella che più mi tornava utile per manipolarlo a mio piacere. Quanti sensi di colpa, che sono stata in grado di fargli venire; quante volte deve essersi pentito di quello che si è permesso di fare; quante volte gliel’avrò fatto capire che è mio. Tutto mio. Perché nessuno può volermi lasciare e nessuno può lasciarmi.

Era mio: io l’avevo costruito e lui non aveva il diritto di voler vivere lontano da me. Non aveva il diritto di essere diverso da come l’avevo disegnato, non aveva il diritto di essere felice, non aveva il diritto di essere: l’avevo creato perché non lo volesse nessun’altra, perché non si volesse neppure da solo.

Sarebbe tornato, se non fosse stato per quella puttana che si è messa in mezzo. Anche se non sopportavo quello che era diventato, anche se non potevo guardarlo negli occhi senza vomitare, anche se detestavo tutto quello che faceva, anche se mi veniva voglia di picchiarlo forte quando sentivo la sua voce, doveva tornare. Era andato via da due anni, ormai era tempo: non potevo più sopportare quell’immagine di fallimento, che essere una donna separata trasmetteva a tutti i miei conoscenti.

Io l’avevo plasmato affinché non piacesse a nessuno, neppure a se stesso. Ha avuto solo quello che si meritava, quella puttana rovina-famiglie.

Per fortuna con il mio bambino è diverso: lui sarà perfetto.

Ho qui una sua foto: vuole vederla,Vostro Onore?

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