domenica 18 dicembre 2011

Il futuro è mio (e me lo gestisco io)

Suo padre non voleva proprio capire.
Non che fosse una novità, l’incomunicabilità tra padri e figli o madri e figlie, ma è sempre così che i figli si ritrovano in situazioni come quella in cui era Alessio in quel momento: il completo del matrimonio di zia Priscilla, la camicia dell’esame, una cravatta di seta dal disegno senza tempo, mocassini in tinta con la cintura ed i calzini di Bart Simpson come unico tocco personale, l’unica libertà che gli era stata concessa. Tirato a lucido come una zucca ad Halloween, per un colloquio non richiesto con il nonno del cugino della zia acquisita di un “amico di famiglia”, per un lavoro che, a detta di suo padre (e del nonno, del cugino, della zia acquisita e dell’amico di famiglia) era un posto d’oro, che centinaia di persone avrebbero messo la firma per avere. Specie in tempi come questi.
Centinaia di persone tranne una.

Ma a nulla erano valsi tentativi di Alessio di spiegare a suo padre (e al nonno, cugino, zia, amico) che quell’uno era lui. Niente da fare, nemmeno quando aveva provato a far notare che, a suo modestissimo parere, non sarebbe stato proprio rispettoso nei confronti di chi davvero quel lavoro lo avrebbe voluto, che questo andasse a lui, lui che in quel momento davvero non  ne voleva sapere. Per non parlare della totale inutilità di sollevare la solita ed annosa questione, circa il piccolo particolare che lui, nonostante la laurea breve in economia, presa per far piacere ai genitori, volesse fare il cantautore. O almeno ci volesse provare. E comunque, che a ventuno anni appena compiuti, con la prospettiva di averne davanti più di quaranta come forza attiva nella società, avesse il sacrosanto diritto di spendere un lustro ad inseguire il suo sogno. Visto poi che grazie al suo patentino da bagnino, coi suoi sei mesi di lavoro all’anno sgravava i genitori da diverse spese che lo riguardavano.

Ed ora era lì, a far da anticamera insieme a due ragazze sui trent’anni e ad un uomo, che poteva avere al’incirca quarantacinque anni, davanti all’ufficio del direttore-nonno, dove doveva esserci un altro candidato per quel posto, che però era già suo. Questo pensiero lo faceva sentire molto a disagio: si sentiva tanto in colpa, che a malapena era riuscito a salutare gli altri con un cenno del capo, leggero ed impacciato. Di fare conversazione non se ne parlava. Le due ragazze invece colloquiavano alquanto amabilmente del tempo, del traffico, del nuovo centro commerciale, ma la verità era che facevano a gara a chi dimostrava all’altra di avere più bisogno di quello stipendio. L’uomo non prendeva parte al gioco, anzi sembrava intento a leggere un quotidiano, ma la respirazione percettibilmente alterata, i movimenti ad allentare il nodo della cravatta ed il piedino che dondolava nervosamente, svelavano una tensione come a dire che, se avesse deciso di partecipare a quella gara al più miserabile, sicuramente avrebbe vinto lui.
E Alessio si volevo alzare, ma poi chi l’avrebbe sentito, suo padre, che aveva fatto fare brutta figura al cugino, alla zia, all’amico.
Uno dopo l’altro erano entrati tutti. Non sapeva cosa si fossero detti, in quell’ufficio, ma tutti quelli prima di lui uscivano con la speranza negli occhi e più uscivano sperando, più Alessio stava male; più stava male e più forte diventava il desiderio di fuggire e così fuggì, nell’unico modo che conosceva: scrivendo una canzone.

La “chiacchierata” col nonno-direttore era andata egregiamente: in effetti Alessio sarebbe stato davvero il profilo che faceva al caso loro e se n’era reso conto anche lui. Il commiato aveva lasciato chiaramente intendere che il vertice dell’azienda aveva molto apprezzato quel ragazzo, che gli era stato caldamente consigliato dalla parentela ramificata. Almeno, in questo modo, un po’ di quell’opprimente senso di colpa per aver sottratto qualcosa a qualcuno di più meritevole era sbiadito; era rimasta, tuttavia, la sgradevole sensazione di aver sottratto qualcosa a qualcuno che ne aveva più bisogno.
Non che l’offerta fosse poi così imperdibile come era stata dipinta: si trattava, infatti, di uno stage senza rimborso spese per tre mesi, seguito da un altro con rimborso spese, a scopo assunzione come apprendista nel giro di un anno e mezzo o due, per un’integrazione definitiva nell’azienda.
A parte il senso angosciante di claustrofobia che la cosa dava ad Alessio –ma era soggettiva-, il ragazzo non poteva non pensare non tanto alle due trentenni, quanto al signore che aveva circa l’età di suo padre: stage, rimborso spese, apprendistato…ripensandoci il suo colloquio era durato meno degli altri, probabilmente perché, una volta appurata l’età del candidato, la sua anagrafica s’era rivelata chiaramente inadeguata alla ricerca in corso.

Appena varcata la soglia di casa, Alessio si era chiuso in camera per cercare la musica adatta alle parole che aveva appena scritto. Sua madre stava consolando la sorella, che probabilmente s’era vista respingere l’ennesimo curriculum, e il padre non era ancora rientrato dal negozio. Sicuramente avrebbe telefonato, ma per fortuna lui si era fatto quella stanza insonorizzata e da lì nessuno l’avrebbe smosso fino a cena. Anzi, avrebbe tranquillamente potuto non cenare proprio, ma era consapevole del fatto che, prima o poi, avrebbe dovuto affrontare l’argomento.

Non era stato difficile intuire che la voce era già arrivata ai padiglioni auricolari paterni, perché lo sguardo di rabbia contenuta che accolse l’arrivo a tavola di Alessio era fin troppo eloquente: l’amico, la zia o il cugino avevano parlato.
Una serata da incubo e oltre al papà che lo diseredava e alla mamma che si vergognava, questa volta c’era anche sua sorella, che lo stava odiando per invidia e disperazione.
Sì, perché Alessio aveva osato l’impensabile: aveva rifiutato un posto fisso, che era ormai suo. E non l’aveva fatto solo per i sensi di colpa nei confronti delle due ragazze e del signore col piede nervoso; e non l’aveva rifiutato solo perché, a conti fatti, in fondo si trattava di lavorare un anno gratis; né l’aveva fatto solo perché voleva provare ad inseguire il suo sogno: Alessio aveva rifiutato per tutti e tre questi motivi messi assieme. Ed anche un po’ per principio e sfida, perché rifiutare un lavoro che non soddisfaceva le sue aspettative non poteva non essere un suo legittimo diritto.
Per non dire che il mese successivo ci sarebbero state le selezioni per quel talent show in cerca di nuovi voci e lui voleva dedicare tutto l’impegno, l’anima e le energie positive, per far sì che il suo dono, che era il suo desiderio, diventasse anche il suo destino.

L’indomani in spiaggia il proprietario del lido gli aveva dato il buongiorno coi pollici in su, alla Fonzie; il suo collega l’aveva salutato con un’amichevole botta di cretino; un gruppo di turisti, clienti da tre settimane, l’avevano squadrato in malo modo, per poi voltargli le spalle senza degnarlo di ulteriore attenzione, se non quella necessaria per cercare di tenergli nascosto che stavano parlando di lui. Passata la sensazione del tipo Truman Show, Alessio aveva deciso di chiedere spiegazioni al collega, per scoprire con stupore e disappunto che tutti in provincia ormai sapevano che era stato proprio lui, colui che per viltade fece il gran rifiuto.
Sì, perché una radio locale (della nonna della sorella del cugino dell’amico di famiglia) aveva messo in giro la scioccante notizia di un ingrato giovine abile al lavoro, che aveva gettato alle ortiche un’occasione ambita da molti, con la sola motivazione di continuare a fare il bagnino, per stare in mezzo alle belle ragazze.

Alessio voleva ridere e voleva piangere: ridere del telefono senza fili che spesso sono le comunicazioni tra umani, piangere per l’ennesima prova di mancanza di empatia del prossimo, nei confronti dei suoi simili; e voleva ridere di come la gente faccia in fretta a diventare giudice, piangere per come si creino velocemente vittime e carnefici. E voleva fuggire, così scrisse un’altra canzone.

Nelle tre settimane successive non aveva potuto muovere un passo, senza che qualcuno lo additasse o si sentisse in diritto di fermarlo, per criticare apertamente le sue scelte di vita. Un suo coetaneo era arrivato addirittura a minacciarlo, urlandogli in faccia ed accusandolo di essere la causa di tutto ciò che nella vita gli andava storto: avevano dovuto tenerlo in tre, per evitare che gli si scagliasse addosso.
Nelle tre settimane successive Alessio provò così tante volte il desiderio di fuggire, che il giorno delle selezioni aveva un numero di pezzi sufficienti ad incidere un intero album.

***
Caro Alessio,
siamo rimasti così colpiti dalla tua esibizione, dal tuo talento, la tua passione, la freschezza e la straordinaria capacità di trasmettere ognuna delle emozioni che provi!

Perdonaci, se non ti abbiamo contattato prima, ma ci hai talmente impressionati, che stavamo studiando per te qualcosa che esuli dallo show, alle cui selezioni hai preso parte.

Era infatti nostra intenzione comunicarti la nostra decisione unanime di incidere un singolo, seguito da un CD, con tutte le tue canzoni che ci hai permesso di ascoltare. E facci anche sapere se ne hai delle altre.

Ti aspettiamo al più presto all’indirizzo in calce.
Grazie.”

La mamma aveva appena finito di leggere la lettera e la voce le tremava; il papà stava reggendo il foglio, perché si era accorto che alla prima riga le mani della signora non riuscivano a sopportare l’emozione; la sorella piangeva. Aspettavano un cenno, un movimento qualunque, ma Alessio restava fermo, in silenzio, con gli occhi chiusi. Come sempre, da quando qualcuno l’aveva picchiato mentre rincasava dall’audizione, lasciandolo in coma sul marciapiede. Pare che l’aggressore abbia detto “adesso sì, adesso sì, che hai una scusa per rifiutare.”

mercoledì 7 dicembre 2011

Non passa lo straniero


La folla si era radunata nel giro di una manciata di minuti ed era una moltitudine eterogenea: c’erano il nonno col nipotino –non era andato a scuola perché aveva mal di pancia-, la signora che passeggiava il cane –troppo di corsa, per fermarsi a raccogliere tutto ciò che l’amico peloso aveva amorevolmente disseminato tra i vicoli e la spiaggia-; c’erano gruppetti di pensionati sull’attenti –acuti osservatori, colti a metà strada tra il cantiere dei lavori in corso ed il primo bicchiere di bianco-, diverse mamme sudate in tuta e scarpe da ginnastica –arrivavano a scaglioni, ma in una sequenza cadenzata, che sembravano la tabellina del tre- e c’erano, infine, i carabinieri e la croce rossa.

Carabinieri e croce rossa, a ben guardare, c’erano già da prima. Anzi, era stata proprio la loro presenza ad attirare i cittadini, preoccupati ed incuriositi da cotanto spiegamento di divise nere-rosse e blu-bianco-rosso (più incuriositi, che preoccupati, in verità, almeno in principio).

- Avranno investito qualcuno. Magari uno di quei ragazzini di oggi, che sfrecciano sulle strisce con le loro motorette.
- Ma è la casa di Bacci, quella! Lo dicevo che era strano, che oggi non s’era ancora visto per offrirmi il caffè.
- Oh, lì ci abita la Rosi: il marito l’avrà trovata con uno dei tanti amanti…
- È sicuro colpa del cantiere: ma non avete visto come lavorano? Avranno tranciato qualche cavo o sfondato qualche tubo: qui sotto c’è tutto un punto nevralgico di gas ed elettricità.
Un vociare confuso, sovrastato da una litania monotona e logorante:
- Andiamo? Andiamo ai giardini, nonno? Andiamo!

Ma l’arrivo di quel pullman scortato e con i vetri oscurati, non se l’era proprio immaginato nessuno.

Non se l’era immaginato nessuno neppure quando, tra le facce degli astanti in attesa di riportare a casa la notizia del giorno, aveva fatto capolino il solito sorriso del Sindaco: quello che sembra che gli angoli della bocca gli siano stati sapientemente graffati ai lobi, per alleggerire l’ingrato compito dei muscoli, costantemente sotto sforzo.
Sindaco, vice-sindaco, un paio di assessori e qualcuno dell’opposizione a caso, a formare un comitato d’accoglienza per chissà chi c’è su quel bus, ma di certo qualcuno d’importante.

E ancora no, nessuno aveva indovinato e vi assicuro che esserci e osservare il rincorrersi delle molteplici espressioni di sorpresa, curiosità e dubbio sui volti dei miei concittadini –ignari, ma elettrici di aspettativa-, mi ripagava egregiamente di tutte e tre le serie di quel telefilm sul linguaggio del corpo e la comunicazione non verbale.
Ma più interessanti dell’analisi prossemica delle microespressioni nell’attesa, sarebbe stato assistere al graduale uniformarsi dei visi, al momento dell’apertura delle porte del veicolo: credo si potesse definire “totale e subitanea perdita di ogni punto di riferimento, con lento, ma inesorabile, senso di occlusione e claustrofobia”. Non so se sia una definizione tecnica, ma per dare un’idea più chiara e riassumere in una parola: “AIUTO!”
Stavano arrivando i profughi di Lampedusa.

Mi chiedo se anche gli altri siano stato colpiti subito, come me, dall’assenza di donne nel gruppetto dei dieci, che scendevano i gradini lentamente, in fila composta, uno dietro l’atro; né so se sia plausibile ipotizzare che altri abbiano scorto nei loro occhi quel vuoto profondo e disarmante –ché forse era una mia proiezione, dovuta a ciò che si leggeva e sentiva, sulle innumerevoli traversie della loro fuga e della loro vita in generale. Quello di cui sono abbastanza sicura, invece, è che tutti i presenti l’abbiano visto immediatamente, quel piccolino, in braccio all’uomo che mi auguravo essere il suo papà, visto che di figure materne, come ho già detto, non ve n’era traccia alcuna.
Quel piccolino con gli occhi più profondi e più vuoti di tutti.

Troppo confusa e scossa per commentare a caldo, la folla si era dispersa con la stessa velocità con cui s’era raccolta. Immagino che anche quelli arrivati insieme, fossero poi tornati ognuno alla propria attività di routine, senza far parola dell’accaduto: troppo attoniti per formulare e comunicarsi pensieri di senso compiuto. Il resto della giornata era trascorso senza cenni di sorta, tranne qualche sguardo complice tra gli adulti all’uscita delle scuole, alcuni ponderati scuotimenti di capo davanti alla tazzina dell’espresso, colpi di tosse e alzate di spalle, di nuovo all’insegna della comunicazione non verbale: la quiete prima della tempesta.

Il tam-tam era infatti partito solo la sera, su Facebook: Tizio scrive sulla bacheca di Caio, Caio risponde, arriva Sempronio che condivide e via, in un battito d’ali in tutto il villaggio telematico si scriveva della stessa cosa.
Ai miei occhi era fin troppo evidente che il silenzio delle ore diurne sarebbe servito a ciascuno perché prendesse forma una coscienza collettiva bipartita: quella di chi si sarebbe messo in moto per offrire aiuto e sostegno ai nuovi arrivati e quella avrebbe covato indignazione e disappunto per l’arrivo dell’invasore.
In principio la fazione dei solidal –diciamo così- pareva non mostrare attenzione alcuna per lo schieramento dei conquistados –permettetemi anche questa licenza-: tutti presi dalla propria rete di entusiasmi, ognuno troppo coinvolto dal sacro fuoco che gli ardeva dentro, per accorgersi di quello avverso che bruciacchiava l’altra metà della popolazione locale. Sia stato un solidal o un conquistado, il primo a rendersi conto dell’esistenza delle due fazioni antitetiche, lo ignoro. Certo è che, appena ripresi dall’incredulità del primo incontro, è stata subito guerra aperta. Virtualmente parlando, s’intende.

[principessa74]: Dobbiamo fare qualcosa per aiutarli, chiedere in giro se serve, se hanno bisogno.
[aquiladelnord]: E a noi, che anche noi abbiamo dei bisogni, chi ci pensa ai nostri bisogni?
[paolapaoletta]: Ma questa è povera gente, gente che ha vissuto degli orrori che nemmeno ci immaginiamo!
[ludo79]: Mio nonno ha fatto la Guerra, anche lui ha vissuto degli orrori, ma nessuno l’ha aiutato, quando è tornato: si è dato da fare da solo!
[mariafiore60]: Ma che c’entra, questi sono stati sfruttati, picchiati e chissà che altro: sono scappati fin qui, ne hanno passate di tutti i colori, perché noi comunque ai loro occhi stiamo meglio di loro. Pensa un po’ come devono stare.
[pucciorossi]: Ma appunto, si aspettano che gli regaliamo le nostre cose e voi furbi che gliele date, così ne arrivano altri, che pensano “questi son scemi, ci danno tutto, andiamo anche noi”. Diamogli anche le donne, visto che non ne hanno.
[elena@pmail.com]: Ma che discorsi. E poi anche fosse che una donna vuole stare con uno di loro? Ma noi non ci ricordiamo che siamo sparsi per il mondo, perché siamo stati noi, i profughi, per un’intera generazione a cercar fortuna in America, in Germania, in Australia. Ma se ci avessero accolto come noi accogliamo questi, ma ci pensate?
[ludo79]: Guarda che ci hanno accolto esattamente così. E comunque noi siamo di un’altra pasta: ci rimbocchiamo le maniche e via, come i muli. Tutto quello che abbiamo ce lo meritiamo. Mica come questi: questi sono arrivati e gli abbiamo dato una casa. Una casa, ma capiamo? E questi mangiano e chi gliene dà? Noi, gliene diamo, con le nostre tasse: perché noi le paghiamo, le tasse! A questi gli danno una casa, che    paghiamo noi; gli danno tre pasti al giorno, che paghiamo noi; e gli danno trecento, quattrocento euro netti al mese, che paghiamo noi e quelli se li vanno a bere e a drogarsi! Io lavoro dieci ore per milleduecento euro; mia nonna ha cresciuto sette figli, ha lavorato per avere una pensione di settecento euro e le case che ha se l’è         sudate, mio nonno!
-[mariafiore60]: Va be’, allora fai cambio: vai a vivere un po’ dove stavano loro, poi vieni qui in gommone –e magari fatti l’ultimo pezzo a nuoto-, a non fare nulla tutto il giorno. Però devi vivere dove stanno loro, sconosciuti tutti assieme, e mangiare quello che danno a loro e fartela tutta, la loro vita. Non che invidi solo un pezzo, dal comodo del tuo divano.
E il bambino? L’hai visto il bambino?

Ecco, di fronte all’argomento bambino gli animi si raffreddavano un poco: per i solidal era il simbolo sulla loro bandiera e per i conquistados rappresentava un notevole ostacolo sulla via della ribellione, perché di fronte all’orfano di pochi mesi, non se la sentivano di controbattere alcunché.

Una nottataccia, comunque. Che poi erano diventati due giorni, che erano diventati cinque e una settimana e così via, ad arrivare ad un mese di scontri sulla questione “indovina chi viene a cena - e fa il portoghese”.

La cosa antropologicamente curiosa, tuttavia, erano le modalità di discussione: i membri delle due squadre avversarie, pur conoscendosi personalmente (il paese è piccolo e la gente –piccola- mormora), non toccavano l’argomento quando s’incontravano per la strada, anzi, parlavano sorridendo del più e del meno, per poi accendere il computer e scannarsi per ore; Tipo sapeva perfettamente di avere insultato Coso la sera prima, ma i due si salutavano come niente fosse, mettendosi d’accordo per portare insieme i figli alla partita; Roba aveva offeso la madre e la sorella di Bionda, ma si vedevano al bar per decidere quale regalo portare alla festa del figlio di Chissoìo.
Trenta giorni di studio e qualunque aspirante di sociologia, psicologia o umanologia generale si sarebbe guadagnato un meritato centodieci/centodieci e Lode con diritto di pubblicazione. Trenta, non uno di più.

***

La folla si era radunata nel giro di una manciata di minuti ed era una moltitudine eterogenea: c’erano la nonna col nipotino –non era andato all’asilo perché aveva mal di gola-, il ragazzo che passeggiava il cane –troppo di corsa, per fermarsi a raccogliere tutto ciò che l’amico peloso aveva amorevolmente disseminato tra i vicoli e la spiaggia-; c’erano gruppetti di pensionati sull’attenti –a metà strada tra il cantiere dei lavori in corso ed il secondo bicchiere di bianco-, diverse mamme con le borse della spesa – che arrivavano in sequenza- e c’erano, infine, i vigili del fuoco e la croce rossa.

Vigili del fuoco e croce rossa, a ben guardare, c’erano gi da prima.

- Forse qualcuno si è addormentato con la sigaretta accesa.
- Forse qualcuno che voleva leggere, ha coperto una lampada per consentire a chi era stanco di riposare.
- Forse non avevano controllato la calderina.
Un vociare sommesso, sovrastato dalle note di una litania monotona e sfibrante:
- Nonna? Giardini, nonna! Giardini!

Non so cosa pensassero, non c’erano microespressioni da leggere in quell’ unico sguardo, imbarazzato, seminascosto sotto le ciglia ed i cappellini. E forse non pensavano a nulla, non volevano pensare, con quello sguardo unanime di disagio collettivo e vi assicuro che era impagabile esserci, ad osservare gli occhi lucidi di lacrime malcelate, di colpa e compassione, dei miei concittadini consapevoli, loro malgrado, che il prezzo per mettere fine a quella strana scissione di paese era stato davvero alto.

[principessa74]: Povero piccino.
[ludo79]: È diventato un angelo del paradiso.
[mariafiore60]: Hanno perso di nuovo tutto.
[pucciorossi]: E adesso che succede?
[elena@pmail.com]: Li trasferiscono altrove. Più a est, ho sentito. In città.
[aquiladelnord]: Poverini, spostarsi di nuovo, magari erano contenti di stare qui, e invece.
[ludo79]: Eh, sì, poverini. Ho sentito dire che qualcuno non li voleva qui, magari è meglio che se ne vadano. Lo dico per loro.
[principessa74]: Sì, sì. Infatti. Staranno meglio.
[paolapaoletta]: Per loro.





giovedì 24 novembre 2011

Globalizzazione

Il mondo è l’espressione delle potenzialità dell’essere umano, in rapporto di causa-effetto con ciò che lo circonda.
Il viaggio intorno al mondo è il viaggio attraverso tutto quello che ognuno potrebbe essere, in un altro luogo ed in un’altra pelle.
Il ritorno a casa è il tempo per capire che ogni altra pelle, ogni altro luogo ed ogni altra espressione di potenzialità -con ciò che ci circonda-, non l'abbiamo appresa da fuori, ma generata da dentro.
Io sono dio.

giovedì 17 novembre 2011

Tempo indeterminato.

Un pacco di verdi, un pacco di gialle ed uno di azzurre.
Ormai la commessa lo sa e me le mette sul bancone appena scorge la mia figura far capolino tra i nastri colorati e gli immensi rotoli salva spazio. Da lei non compro altro che buste colorate formato commerciale e mi chiedo se, in tutti questi anni, lei o la sua titolare si siano mai domandate che diamine me ne faccio. Nove anni, sempre le stesse buste: un pacco di verdi, un pacco di gialle ed uno di azzurre, formato commerciale. Ci hanno provato entrambe, a darmele di un diverso colore e di un altro formato, chissà se per esigenze di magazzino o pura curiosità alla mia reazione, ma io non ho mai ceduto.
Già, perché tinta e forma non sono frutto del caso o di una mera preferenza soggettiva, bensì di un ragionamento ponderato, analitico, fatto di fogli excel, valutazioni, somme e medie al millesimo: una specie di lista di pro e contro ossessivo-compulsiva.
Il formato della busta dev’essere tale da non rovinare il foglio che contiene; la piega del foglio contenuto dev’essere di aspetto professionale e si sa, un A4 piegato a pamphlet è roba da bambini, nulla a che vedere con la piega tripartita orizzontalmente, che ti permette di mostrare una certa precisione matematica, unita ad un discreto senso artistico. Il colore deve saltare all’occhio, deve attirare lo sguardo: deve dire “ehi, leggimi subito!”; ma deve essere adulto, di genere neutro e, non ultimo, permettere una facile lettura del destinatario, come del mittente. Quindi niente rosa, lilla, fucsia, ché l’accostamento al femminile è immediato e, onestamente, fa troppo adolescente, e via anche rosso, blu, viola, su cui non c’è penna nera o blu di cui si riesca a scorgere il segno. Arancione non ce l’hanno.
Insomma, la busta è il primo biglietto da visita del curriculum che contiene.

Già all’inizio i francobolli erano in euro, anche se da poco. E c’era la posta prioritaria, che oltre ad arrivare subito, aggiungeva un ulteriore tocco di importanza. La filatelia non m’interessa, quindi non aspettatevi ch’io mi ricordi anche uno solo dei soggetti che mi sono passati tra le mani in questo decennio.

Modalità di invio: lettera di presentazione su velina bianca, scritta a mano, e curriculum differenziato a seconda del destinatario –se ufficio, negozio o scuola-, nella misura di non più di tre al giorno, così da non liquidare la missione tutta in un’unica gittata, ma distribuire l’impegno e mantenere la mente concentrata.

Nulla di diverso per i curricula consegnati brevi manu, tranne il dettaglio del risvolto superiore della busta, infilato e non incollato -che detto così fa molto Bond. James Bond.

Altra storia per le candidatura spontanee online, perché lì l’involucro cartaceo non era proprio contemplato; ma ci voleva un indirizzo di posta elettronica creato ad hoc, che comunicasse professionalità, semplicità, ma con un pizzico di estro: una maiuscola anziché un punto, un dominio anziché un altro, cose così.

La situazione era cambiata nel corso degli ultimi mesi. Non che questo cambiamento fosse stato radicale, forse è stato solo un processo ad accumulo e mano a mano che si andavano ad aggiungere silenzi su silenzi, ogni silenzio nuovo si faceva più assordante del precedente, ogni delusione più dolorosa, ogni busta più pesante.
Sì, perché non è che mi abbiano mai risposto, eh: tre buste al giorno per dieci giorni ogni tre mesi e per nove anni (non me n’ero mai accorta, ma ora intuisco un qualcosa di magico, in questi numeri) e mai una risposta. Non dico una risposta positiva, ma intendo proprio una risposta qualunque, un cenno, un insulto. Niente. Mai. Ma almeno andavo sul sicuro sulla consegna di persona: lì almeno c’era qualcuno che mi guardava negli occhi, che non poteva ignorare la mia presenza fisica, che esperiva la mia esistenza e che doveva mandare via un essere umano e non cestinare un pezzo di carta. Ed era proprio questo che sera andato modificandosi di recente: la reazione in presenza di una persona che si presenta a chiedere di lavorare. Cioè, non di “una persona”: ero io.
Da un paio di mesi avevo iniziato a notare la trasfigurazione dei volti dei miei interlocutori, al comprendere che non ero lì per comprare qualcosa, bensì per vendere qualcuno. Per vendere me: le mie conoscenze, le mie competenze, le mie doti, il mio tempo. Il terrore. Sì, se dovessi riassumere quell’espressione in una parola, decisamente la più aderente sarebbe “terrore”. Gli facevo paura. Tanto che anziché avanzare col busto, allungare la mano e prendere dalla mia il cv che andavo offrendo, incominciavano ad indietreggiare, incrociando le braccia, chiudendosi nelle spalle e serrando la bocca, come un bambino quando non vuole prendere la medicina. È un pezzo di carta, non morde mica. Taglia, al massimo, ma solo se ti distrai mentre lo maneggi.

Niente, un’escalation. Ricordo chi è stata la prima a spaventarsi, allontanandosi dalla mia mano armata di curriculum: la proprietaria di una libreria. Poi c’è stata la segretaria della scuola; tutta una serie di commesse, un direttore di filiale, il titolare di un bar…le facce non le ricordo più, perché si omogeneizzavano tutte su quell’espressione pallida, tirata, gli occhi sbarrati, le labbra sigillate: maschere grottesche. Maschere di terrore per la mia mano, che brandiva un pezzo di carta che raccontava la mia vita, ma non si può avere paura di un foglio, no? Ti sto offrendo qualcosa su cui puoi trovare il mio nome, il mio indirizzo, il mio numero di telefono e tu hai paura di questo? Tu e gli altri. No, c’è di più. Dev’esserci di più.

E ho iniziato a odiarli.
Odiarli indistintamente.
Odiarli tutti.

Il primo non ha sofferto. Non se ne è neppure accorto. Non so come ho fatto, forse perché ero molto vicina, ma è bastato un gesto minimo e alla sua maschera grottesca si è aggiunto un foro, tondo, preciso, tra gli occhi poco sopra il naso. Non è stato difficile come pensavo, anzi, io credo che anche una parte di lui lo volesse e quel terrore per la mia mano che brandiva un pezzo di carta che raccontava la mia vita, all’improvviso ho capito: era lui che voleva che quel terrore fosse giustificato, in qualche modo. Lui e gli altri.

Al termine del processo il mio fidanzato mi ha chiesto perché. Perché hai insistito per nove anni, perché non hai provato a fare dell’altro, perché hai continuato usando lo stesso metodo per tutto questo tempo, perché se hai visto che non dava frutti, non ti sei inventata qualcosa di diverso, perché non hai trovato la tua strada fregandotene di quelli che non ti volevano, perché non hai visto che tu avresti potuto fare qualunque cosa, perché, perché…
Per fortuna mi avevano tolto la pistola.

Adesso vivo in un posto in cui non devo dannarmi l’anima per trovare ogni mese il modo di pagare l’affitto; un posto in cui faccio tre pasti al giorno e non devo dannarmi l’anima per trovare ogni giorno il modo di pagare la spesa; il  mio sogno è sempre stato quello di studiare, studiare e basta, e adesso posso farlo.
Adesso imparo un sacco di cose in mezzo agli altri vestiti uguali, tranne qual è il crimine giusto per non passare da criminali. Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane: ora sappiamo che è un delitto, il non rubare quando si ha fame.

Ho un tempo indeterminato. Non andrò in pensione, ma del resto, quanti di voi si illudono che ne avranno una? E poi scrivo e il mio editore dice che sarà un best seller e che un grande regista sta già radunando un casting di qualità per raccontare la mia storia con le immagini (gli ho già fatto un disegno di come devono essere le maschere di terrore).
In verità scrivevo già prima di venire qui, ma prima di venire qui nessuno mi voleva pubblicare.

mercoledì 16 novembre 2011

Da qui a lì.

- Secondo te si deciderà, prima o poi?
- Non lo so davvero. Quanto tempo è ormai? Ho sempre dei problemi con il tempo.

- Un anno, undici mesi, dodici giorni e…uno di voi sa l’ora?
- Ah, ciao. Scusa, non volevamo. Però sai, non è mai chiaro quando…
- No, va bene. Mi ci sto abituando.
- Quindi…quando pensi che lo farai?
- Non credo dipenda da me. Voi credete dipenda da me?
- …
- Penso che, insomma, non è diverso per ogni persona?
- Sì, diverso. In un certo senso. Ma solo all’inizio.
- Ma per voi com’è stato?
- Io ero stanca. Tanto stanca. Mi ricordo come un abbandono, come quando hai una cosa in mano e poi non sei più concentrata sulla cosa e sulla mano e ti accorgi che hai allentato la presa, solo un poco, ma è stato abbastanza perché ciò che stringevi scivolasse via. E ti rendi conto che ti stava pensando, quella stretta.

- Stai parlando per niente: è andato di nuovo.
- Ah. Tu non gli rispondi mai: hai paura?
- Ma no, che paura, figurati. “Paura”. Ricordo la parola, la visualizzo assieme ad un senso di immobilità, ma cosa si prova me lo sono dimenticato. Tu no?
No, è solo che non so se sia corretto interagire così con lui. Se continuiamo a rispondere, a rassicurarlo, non lo farà mai.
- “Mai” è impossibile.
- Sì che è possibile: accadrà, perché accade sempre, ma non sarà lui ad averlo fatto e sarà stato tutto inutile. Gli succede addosso e non se rende conto.
- Ah, credi a quella storia, tu? All’oblio?
- Certo, che ci credo. Ci credo perché lo sapevo già da prima: l’avevo sognato. Quando ancora si sognava, s’intende:
lei proprio non voleva allentare la presa -per riprendere la tua metafora- e quando la cosa le è scivolata di mano, non se n’è accorta. Lo so perché l’ho vista in sogno, sperduta e confusa, col pugno vuoto chiuso stretto, convinta che ancora ci fosse qualcosa dentro. Così convinta di essere ancora lì, che per un attimo l’ho creduto anch’io. Solo una volta, è successo: non l’ho mai più rivista. Neppure qui. Credo che non sia più riuscita a trovarmi. Credo che non sapesse nemmeno più di avere qualcuno da cui tornare. Perché non si è resa conto di essere partita.
- Io ho sempre creduto che fosse una storiella per spaventarli quando tentennano.

- Io non tentenno.
- Non tentenni, dici, però vai e vieni, tanto che non riusciamo a starti dietro. E guarda che stiamo dietro a tante cose.
- Io non tentenno: sto bene qui, ma sto bene anche lì. Non ho voglia di rinunciare a niente.
- Finché farai avanti e indietro, ti sembrerà sempre di rinunciare a qualcosa. Se ti fermi con noi, dopo ti sentirai diverso.
- Vai lì, se vuoi andare: noi ti aspettiamo qui.
- Fate presto, voi, a parlar di qui, di “dopo”: ma io non so niente di dopo e qui: io sono lì e ci sono adesso.
- Un qui e un dopo siamo noi. Così come siamo stati un  lì ed un adesso.
- Non è una consolazione.
- Non siamo qui da - com’era?- un anno, undici mesi, dodici giorni, per consolarti.
- Già, bravi: e allora perché siete qui? Sempre con la faccenda che vi ho chiamati? Io non vi ho chiamati, non mi passava proprio per la testa, non lo volevo. Non che non mi faccia piacere, non ho detto questo. Anzi. Lo sapete quanto ci tenessi, l’ho sempre detto, no, che vi avrei voluti con me? Sempre. Quando me lo immaginavo, era così che me lo immaginavo: con voi.
Ma non…non credo che adesso dipenda da me.
Voi credete dipenda da me?

-  Nonna, vieni! Devi svegliare il nonno: mi ha detto che aveva deciso di andare via con la sua mamma e un suo amico della Guerra, ma si è addormentato.
Quando ho aperto gli occhi questa mattina non ricordavo dove fossi.
Un attimo, una frazione di secondo, il tempo che mi ci è voluto perché i ricordi affiorassero alla coscienza, coperti com’erano dall’abitudine delle ere, dalla rassegnazione degli anni e –certamente- anche dalle ore di assenza del sé nella notte.
La luce particolare e l’odore di nuovo mi hanno aiutata a ritrovare più in fretta il presente. Quel taglio di aurora tra il respiro degli scuri -un tepore rosa e arancione- e l’essenza di ambra e sandalo dal legno del parquet: ero a casa.

Il piccolo sicuramente non aveva sentito la sveglia, dalla sua camera. Chissà che anche lui, nel momento in cui ha aperto gli occhi, non abbia dovuto attendere qualche attimo, prima di riconoscere il rovere moro, l’azzurro pastello ed il giallo limone che lo introducevano al nuovo giorno ed alla nuova vita. Una stanza tutta per lui: niente più goccia insistente che dal lavandino si fa largo tra i sogni, nessun odore infestante di pranzi e di cene, che s’insinua nella fase rem e basta anche col brusio impertinente del frigorifero, che confonde sonno e risveglio.

Dio, la casa nuova! L’interno è perfetto, l’arredamento è perfetto, l’isolamento è perfetto, gli impianti sono perfetti; l’esterno è perfetto, la strada è perfetta, la zona è perfetta, i vicini sono perfetti.

Quando ho preso le chiavi dell’auto un brivido mi ha scossa tutta. Il portachiavi lo tocco così spesso, che l’ho già quasi consumato: a volte lo stringo, altre lo tengo semplicemente tra le mani, è una sensazione di pienezza che non credevo che un oggetto così piccolo potesse dare. Che un oggetto, genericamente, potesse dare. Ma lui è la prova che è tutto vero: è vero che mi alzo al mattino, mi preparo con cura e con cura aiuto il mio cucciolo a prepararsi a sua volta; ripassiamo velocemente la filastrocca di turno, mentre facciamo colazione, qualche minuto prima di lavarci i denti ed uscire insieme: lui mi lancia un bacio dal pulmino ed io rispondo con un soffio di labbra sul palmo della mano, mentre giocando con le piume soffici e confortanti del portachiavi, apro lo sportello e salgo.

Salgo in macchina. La MIA macchina.

Sì, perché adesso anch’io ho una macchina, che mi attende sotto casa, mentre riposa nel suo parcheggio perfetto: niente più lunghe, estenuanti salite con la spesa di piombo che mi segna la spalla, nessuna corsa disperata col cuore ed il fiato che sussultano per la paura di non fare in tempo e basta con l’elemosina di un passaggio, che non arriva perché per strada non c’è nessuno, tutti chiusi  nell’utero delle loro lamiere climatizzate.

E adesso la mia auto nuova mi porta in un nuovo posto, che mi fa paura e mi eccita al tempo stesso, come quando da bambini si giocava alla caccia al tesoro e quando sapevi che era fatta, che l’avevi trovato e disseppellivi il forziere, mi assaliva la paura che all’atto di aprirlo il bagliore fragoroso delle gemme e dell’oro mi avrebbe accecata, o che tutto si sarebbe fatto polvere e sabbia, al solo sfiorarlo. Ma questa caccia è durata nove anni e mezzo. Sono passati nove anni e mezzo da quella me più giovane degli altri che stringe la mano ai professori, mentre scrosciano gli applausi per quella lode, che era stata l’unica della giornata. Nove anni e mezzo senza riuscire a scorgere le palme, la X e il punto in cui scavare: solo qualche duna di spiaggia smossa dall’istinto di una cane dopo i bisogni. E i bisogni del cane sotto i piedi nudi.
Ma adesso ho trovato lo scrigno e lo apro ogni giorno e i doni che contiene sono veri e li posso scambiare con una casa nuova, una macchina nuova, una pizza fuori, due sere in palestra, una festa di compleanno, gli allenamenti di calcio, il corso di chitarra, le scarpe dei pokémon.

Li posso scambiare con una vita perfetta. Dio, la vita nuova!
Sì, perché adesso anch’io ho un lavoro.

Tutti i miei problemi svaniti, tutti i miei sogni realizzati, tutte le mie potenzialità attuate.

Era prima, una nube nera e densa, un peso insostenibile, una coltre di pece, sporca, appiccicosa, puzzolente e nauseabonda, che copriva questa gioia fresca e leggera, questa spensieratezza; poi un genio della lampada: una strofinata, un desiderio; adesso, la perfezione.

***

Oh, a questo punto il pezzo sarebbe finito, ma mi trovo ahimé nella sgradevole posizione di non riuscire a trovare un titolo che sia davvero soddisfacente, quindi ho deciso di ricorrere a voi e chiedervi una preferenza. Ho ristretto la rosa a delle possibilità a due alternative, alquanto differenti tra loro, ma ugualmente evocative:

1. “La mia vita perfetta

2. “La mia vita perfetta dopo che Berlusconi si è dimesso e nei dieci giorni successivi all’avvenimento è passata la crisi negli Usa, in due settimane in Germania e Francia, in diciotto giorni in Grecia, in ventuno nel Burundi; Hamas e l’Iran si sono alleati e fanno le vacanze in multiproprietà, è sparito l’Aids, non c’è più la fame nel mondo, c’è acqua potabile su Marte ma a noi che ci frega, visto che le energie alternative hanno salvato il pianeta e un gruppo si scianziati-sarti ha ricucito il buco nell’ozono. Ah, e appena in Italia è arrivato Monti, con un poco di zucchero lo spread è andato giù e il mio telefono ha iniziato a squillare: erano tutti gli Egregio Signore e le Gentilissima Signora cui in questo decennio si erano accatastati le migliaia di curricula che avevo mandato, nell’attesa di un riscontro positivo da parte Vostra, quando l’occasione era gradita per porgere i miei migliori saluti, e puttana la Vostra vacca Eva, stronzi di merda, coglioni della crisi dei mercati del debito dello spread del bund del cazzo di antani!

Votate, votate, votate.