giovedì 17 novembre 2011

Tempo indeterminato.

Un pacco di verdi, un pacco di gialle ed uno di azzurre.
Ormai la commessa lo sa e me le mette sul bancone appena scorge la mia figura far capolino tra i nastri colorati e gli immensi rotoli salva spazio. Da lei non compro altro che buste colorate formato commerciale e mi chiedo se, in tutti questi anni, lei o la sua titolare si siano mai domandate che diamine me ne faccio. Nove anni, sempre le stesse buste: un pacco di verdi, un pacco di gialle ed uno di azzurre, formato commerciale. Ci hanno provato entrambe, a darmele di un diverso colore e di un altro formato, chissà se per esigenze di magazzino o pura curiosità alla mia reazione, ma io non ho mai ceduto.
Già, perché tinta e forma non sono frutto del caso o di una mera preferenza soggettiva, bensì di un ragionamento ponderato, analitico, fatto di fogli excel, valutazioni, somme e medie al millesimo: una specie di lista di pro e contro ossessivo-compulsiva.
Il formato della busta dev’essere tale da non rovinare il foglio che contiene; la piega del foglio contenuto dev’essere di aspetto professionale e si sa, un A4 piegato a pamphlet è roba da bambini, nulla a che vedere con la piega tripartita orizzontalmente, che ti permette di mostrare una certa precisione matematica, unita ad un discreto senso artistico. Il colore deve saltare all’occhio, deve attirare lo sguardo: deve dire “ehi, leggimi subito!”; ma deve essere adulto, di genere neutro e, non ultimo, permettere una facile lettura del destinatario, come del mittente. Quindi niente rosa, lilla, fucsia, ché l’accostamento al femminile è immediato e, onestamente, fa troppo adolescente, e via anche rosso, blu, viola, su cui non c’è penna nera o blu di cui si riesca a scorgere il segno. Arancione non ce l’hanno.
Insomma, la busta è il primo biglietto da visita del curriculum che contiene.

Già all’inizio i francobolli erano in euro, anche se da poco. E c’era la posta prioritaria, che oltre ad arrivare subito, aggiungeva un ulteriore tocco di importanza. La filatelia non m’interessa, quindi non aspettatevi ch’io mi ricordi anche uno solo dei soggetti che mi sono passati tra le mani in questo decennio.

Modalità di invio: lettera di presentazione su velina bianca, scritta a mano, e curriculum differenziato a seconda del destinatario –se ufficio, negozio o scuola-, nella misura di non più di tre al giorno, così da non liquidare la missione tutta in un’unica gittata, ma distribuire l’impegno e mantenere la mente concentrata.

Nulla di diverso per i curricula consegnati brevi manu, tranne il dettaglio del risvolto superiore della busta, infilato e non incollato -che detto così fa molto Bond. James Bond.

Altra storia per le candidatura spontanee online, perché lì l’involucro cartaceo non era proprio contemplato; ma ci voleva un indirizzo di posta elettronica creato ad hoc, che comunicasse professionalità, semplicità, ma con un pizzico di estro: una maiuscola anziché un punto, un dominio anziché un altro, cose così.

La situazione era cambiata nel corso degli ultimi mesi. Non che questo cambiamento fosse stato radicale, forse è stato solo un processo ad accumulo e mano a mano che si andavano ad aggiungere silenzi su silenzi, ogni silenzio nuovo si faceva più assordante del precedente, ogni delusione più dolorosa, ogni busta più pesante.
Sì, perché non è che mi abbiano mai risposto, eh: tre buste al giorno per dieci giorni ogni tre mesi e per nove anni (non me n’ero mai accorta, ma ora intuisco un qualcosa di magico, in questi numeri) e mai una risposta. Non dico una risposta positiva, ma intendo proprio una risposta qualunque, un cenno, un insulto. Niente. Mai. Ma almeno andavo sul sicuro sulla consegna di persona: lì almeno c’era qualcuno che mi guardava negli occhi, che non poteva ignorare la mia presenza fisica, che esperiva la mia esistenza e che doveva mandare via un essere umano e non cestinare un pezzo di carta. Ed era proprio questo che sera andato modificandosi di recente: la reazione in presenza di una persona che si presenta a chiedere di lavorare. Cioè, non di “una persona”: ero io.
Da un paio di mesi avevo iniziato a notare la trasfigurazione dei volti dei miei interlocutori, al comprendere che non ero lì per comprare qualcosa, bensì per vendere qualcuno. Per vendere me: le mie conoscenze, le mie competenze, le mie doti, il mio tempo. Il terrore. Sì, se dovessi riassumere quell’espressione in una parola, decisamente la più aderente sarebbe “terrore”. Gli facevo paura. Tanto che anziché avanzare col busto, allungare la mano e prendere dalla mia il cv che andavo offrendo, incominciavano ad indietreggiare, incrociando le braccia, chiudendosi nelle spalle e serrando la bocca, come un bambino quando non vuole prendere la medicina. È un pezzo di carta, non morde mica. Taglia, al massimo, ma solo se ti distrai mentre lo maneggi.

Niente, un’escalation. Ricordo chi è stata la prima a spaventarsi, allontanandosi dalla mia mano armata di curriculum: la proprietaria di una libreria. Poi c’è stata la segretaria della scuola; tutta una serie di commesse, un direttore di filiale, il titolare di un bar…le facce non le ricordo più, perché si omogeneizzavano tutte su quell’espressione pallida, tirata, gli occhi sbarrati, le labbra sigillate: maschere grottesche. Maschere di terrore per la mia mano, che brandiva un pezzo di carta che raccontava la mia vita, ma non si può avere paura di un foglio, no? Ti sto offrendo qualcosa su cui puoi trovare il mio nome, il mio indirizzo, il mio numero di telefono e tu hai paura di questo? Tu e gli altri. No, c’è di più. Dev’esserci di più.

E ho iniziato a odiarli.
Odiarli indistintamente.
Odiarli tutti.

Il primo non ha sofferto. Non se ne è neppure accorto. Non so come ho fatto, forse perché ero molto vicina, ma è bastato un gesto minimo e alla sua maschera grottesca si è aggiunto un foro, tondo, preciso, tra gli occhi poco sopra il naso. Non è stato difficile come pensavo, anzi, io credo che anche una parte di lui lo volesse e quel terrore per la mia mano che brandiva un pezzo di carta che raccontava la mia vita, all’improvviso ho capito: era lui che voleva che quel terrore fosse giustificato, in qualche modo. Lui e gli altri.

Al termine del processo il mio fidanzato mi ha chiesto perché. Perché hai insistito per nove anni, perché non hai provato a fare dell’altro, perché hai continuato usando lo stesso metodo per tutto questo tempo, perché se hai visto che non dava frutti, non ti sei inventata qualcosa di diverso, perché non hai trovato la tua strada fregandotene di quelli che non ti volevano, perché non hai visto che tu avresti potuto fare qualunque cosa, perché, perché…
Per fortuna mi avevano tolto la pistola.

Adesso vivo in un posto in cui non devo dannarmi l’anima per trovare ogni mese il modo di pagare l’affitto; un posto in cui faccio tre pasti al giorno e non devo dannarmi l’anima per trovare ogni giorno il modo di pagare la spesa; il  mio sogno è sempre stato quello di studiare, studiare e basta, e adesso posso farlo.
Adesso imparo un sacco di cose in mezzo agli altri vestiti uguali, tranne qual è il crimine giusto per non passare da criminali. Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane: ora sappiamo che è un delitto, il non rubare quando si ha fame.

Ho un tempo indeterminato. Non andrò in pensione, ma del resto, quanti di voi si illudono che ne avranno una? E poi scrivo e il mio editore dice che sarà un best seller e che un grande regista sta già radunando un casting di qualità per raccontare la mia storia con le immagini (gli ho già fatto un disegno di come devono essere le maschere di terrore).
In verità scrivevo già prima di venire qui, ma prima di venire qui nessuno mi voleva pubblicare.

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