giovedì 24 novembre 2011
Globalizzazione
Il mondo è l’espressione delle potenzialità dell’essere umano, in rapporto di causa-effetto con ciò che lo circonda.
Il viaggio intorno al mondo è il viaggio attraverso tutto quello che ognuno potrebbe essere, in un altro luogo ed in un’altra pelle.
Il ritorno a casa è il tempo per capire che ogni altra pelle, ogni altro luogo ed ogni altra espressione di potenzialità -con ciò che ci circonda-, non l'abbiamo appresa da fuori, ma generata da dentro.
Io sono dio.
giovedì 17 novembre 2011
Tempo indeterminato.
Un pacco di verdi, un pacco di gialle ed uno di azzurre.
Ormai la commessa lo sa e me le mette sul bancone appena scorge la mia figura far capolino tra i nastri colorati e gli immensi rotoli salva spazio. Da lei non compro altro che buste colorate formato commerciale e mi chiedo se, in tutti questi anni, lei o la sua titolare si siano mai domandate che diamine me ne faccio. Nove anni, sempre le stesse buste: un pacco di verdi, un pacco di gialle ed uno di azzurre, formato commerciale. Ci hanno provato entrambe, a darmele di un diverso colore e di un altro formato, chissà se per esigenze di magazzino o pura curiosità alla mia reazione, ma io non ho mai ceduto.
Già, perché tinta e forma non sono frutto del caso o di una mera preferenza soggettiva, bensì di un ragionamento ponderato, analitico, fatto di fogli excel, valutazioni, somme e medie al millesimo: una specie di lista di pro e contro ossessivo-compulsiva.
Il formato della busta dev’essere tale da non rovinare il foglio che contiene; la piega del foglio contenuto dev’essere di aspetto professionale e si sa, un A4 piegato a pamphlet è roba da bambini, nulla a che vedere con la piega tripartita orizzontalmente, che ti permette di mostrare una certa precisione matematica, unita ad un discreto senso artistico. Il colore deve saltare all’occhio, deve attirare lo sguardo: deve dire “ehi, leggimi subito!”; ma deve essere adulto, di genere neutro e, non ultimo, permettere una facile lettura del destinatario, come del mittente. Quindi niente rosa, lilla, fucsia, ché l’accostamento al femminile è immediato e, onestamente, fa troppo adolescente, e via anche rosso, blu, viola, su cui non c’è penna nera o blu di cui si riesca a scorgere il segno. Arancione non ce l’hanno.
Insomma, la busta è il primo biglietto da visita del curriculum che contiene.
Già all’inizio i francobolli erano in euro, anche se da poco. E c’era la posta prioritaria, che oltre ad arrivare subito, aggiungeva un ulteriore tocco di importanza. La filatelia non m’interessa, quindi non aspettatevi ch’io mi ricordi anche uno solo dei soggetti che mi sono passati tra le mani in questo decennio.
Modalità di invio: lettera di presentazione su velina bianca, scritta a mano, e curriculum differenziato a seconda del destinatario –se ufficio, negozio o scuola-, nella misura di non più di tre al giorno, così da non liquidare la missione tutta in un’unica gittata, ma distribuire l’impegno e mantenere la mente concentrata.
Nulla di diverso per i curricula consegnati brevi manu, tranne il dettaglio del risvolto superiore della busta, infilato e non incollato -che detto così fa molto Bond. James Bond.
Altra storia per le candidatura spontanee online, perché lì l’involucro cartaceo non era proprio contemplato; ma ci voleva un indirizzo di posta elettronica creato ad hoc, che comunicasse professionalità, semplicità, ma con un pizzico di estro: una maiuscola anziché un punto, un dominio anziché un altro, cose così.
La situazione era cambiata nel corso degli ultimi mesi. Non che questo cambiamento fosse stato radicale, forse è stato solo un processo ad accumulo e mano a mano che si andavano ad aggiungere silenzi su silenzi, ogni silenzio nuovo si faceva più assordante del precedente, ogni delusione più dolorosa, ogni busta più pesante.
Sì, perché non è che mi abbiano mai risposto, eh: tre buste al giorno per dieci giorni ogni tre mesi e per nove anni (non me n’ero mai accorta, ma ora intuisco un qualcosa di magico, in questi numeri) e mai una risposta. Non dico una risposta positiva, ma intendo proprio una risposta qualunque, un cenno, un insulto. Niente. Mai. Ma almeno andavo sul sicuro sulla consegna di persona: lì almeno c’era qualcuno che mi guardava negli occhi, che non poteva ignorare la mia presenza fisica, che esperiva la mia esistenza e che doveva mandare via un essere umano e non cestinare un pezzo di carta. Ed era proprio questo che sera andato modificandosi di recente: la reazione in presenza di una persona che si presenta a chiedere di lavorare. Cioè, non di “una persona”: ero io.
Da un paio di mesi avevo iniziato a notare la trasfigurazione dei volti dei miei interlocutori, al comprendere che non ero lì per comprare qualcosa, bensì per vendere qualcuno. Per vendere me: le mie conoscenze, le mie competenze, le mie doti, il mio tempo. Il terrore. Sì, se dovessi riassumere quell’espressione in una parola, decisamente la più aderente sarebbe “terrore”. Gli facevo paura. Tanto che anziché avanzare col busto, allungare la mano e prendere dalla mia il cv che andavo offrendo, incominciavano ad indietreggiare, incrociando le braccia, chiudendosi nelle spalle e serrando la bocca, come un bambino quando non vuole prendere la medicina. È un pezzo di carta, non morde mica. Taglia, al massimo, ma solo se ti distrai mentre lo maneggi.
Niente, un’escalation. Ricordo chi è stata la prima a spaventarsi, allontanandosi dalla mia mano armata di curriculum: la proprietaria di una libreria. Poi c’è stata la segretaria della scuola; tutta una serie di commesse, un direttore di filiale, il titolare di un bar…le facce non le ricordo più, perché si omogeneizzavano tutte su quell’espressione pallida, tirata, gli occhi sbarrati, le labbra sigillate: maschere grottesche. Maschere di terrore per la mia mano, che brandiva un pezzo di carta che raccontava la mia vita, ma non si può avere paura di un foglio, no? Ti sto offrendo qualcosa su cui puoi trovare il mio nome, il mio indirizzo, il mio numero di telefono e tu hai paura di questo? Tu e gli altri. No, c’è di più. Dev’esserci di più.
E ho iniziato a odiarli.
Odiarli indistintamente.
Odiarli tutti.
Il primo non ha sofferto. Non se ne è neppure accorto. Non so come ho fatto, forse perché ero molto vicina, ma è bastato un gesto minimo e alla sua maschera grottesca si è aggiunto un foro, tondo, preciso, tra gli occhi poco sopra il naso. Non è stato difficile come pensavo, anzi, io credo che anche una parte di lui lo volesse e quel terrore per la mia mano che brandiva un pezzo di carta che raccontava la mia vita, all’improvviso ho capito: era lui che voleva che quel terrore fosse giustificato, in qualche modo. Lui e gli altri.
Al termine del processo il mio fidanzato mi ha chiesto perché. Perché hai insistito per nove anni, perché non hai provato a fare dell’altro, perché hai continuato usando lo stesso metodo per tutto questo tempo, perché se hai visto che non dava frutti, non ti sei inventata qualcosa di diverso, perché non hai trovato la tua strada fregandotene di quelli che non ti volevano, perché non hai visto che tu avresti potuto fare qualunque cosa, perché, perché…
Per fortuna mi avevano tolto la pistola.
Adesso vivo in un posto in cui non devo dannarmi l’anima per trovare ogni mese il modo di pagare l’affitto; un posto in cui faccio tre pasti al giorno e non devo dannarmi l’anima per trovare ogni giorno il modo di pagare la spesa; il mio sogno è sempre stato quello di studiare, studiare e basta, e adesso posso farlo.
Adesso imparo un sacco di cose in mezzo agli altri vestiti uguali, tranne qual è il crimine giusto per non passare da criminali. Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane: ora sappiamo che è un delitto, il non rubare quando si ha fame.
Ho un tempo indeterminato. Non andrò in pensione, ma del resto, quanti di voi si illudono che ne avranno una? E poi scrivo e il mio editore dice che sarà un best seller e che un grande regista sta già radunando un casting di qualità per raccontare la mia storia con le immagini (gli ho già fatto un disegno di come devono essere le maschere di terrore).
In verità scrivevo già prima di venire qui, ma prima di venire qui nessuno mi voleva pubblicare.
mercoledì 16 novembre 2011
Da qui a lì.
- Secondo te si deciderà, prima o poi?
- Non lo so davvero. Quanto tempo è ormai? Ho sempre dei problemi con il tempo.
- Un anno, undici mesi, dodici giorni e…uno di voi sa l’ora?
- Ah, ciao. Scusa, non volevamo. Però sai, non è mai chiaro quando…
- No, va bene. Mi ci sto abituando.
- Quindi…quando pensi che lo farai?
- Non credo dipenda da me. Voi credete dipenda da me?
- …
- Penso che, insomma, non è diverso per ogni persona?
- Sì, diverso. In un certo senso. Ma solo all’inizio.
- Ma per voi com’è stato?
- Io ero stanca. Tanto stanca. Mi ricordo come un abbandono, come quando hai una cosa in mano e poi non sei più concentrata sulla cosa e sulla mano e ti accorgi che hai allentato la presa, solo un poco, ma è stato abbastanza perché ciò che stringevi scivolasse via. E ti rendi conto che ti stava pensando, quella stretta.
- Stai parlando per niente: è andato di nuovo.
- Ah. Tu non gli rispondi mai: hai paura?
- Ma no, che paura, figurati. “Paura”. Ricordo la parola, la visualizzo assieme ad un senso di immobilità, ma cosa si prova me lo sono dimenticato. Tu no?
No, è solo che non so se sia corretto interagire così con lui. Se continuiamo a rispondere, a rassicurarlo, non lo farà mai.
- “Mai” è impossibile.
- Sì che è possibile: accadrà, perché accade sempre, ma non sarà lui ad averlo fatto e sarà stato tutto inutile. Gli succede addosso e non se rende conto.
- Ah, credi a quella storia, tu? All’oblio?
- Certo, che ci credo. Ci credo perché lo sapevo già da prima: l’avevo sognato. Quando ancora si sognava, s’intende:
lei proprio non voleva allentare la presa -per riprendere la tua metafora- e quando la cosa le è scivolata di mano, non se n’è accorta. Lo so perché l’ho vista in sogno, sperduta e confusa, col pugno vuoto chiuso stretto, convinta che ancora ci fosse qualcosa dentro. Così convinta di essere ancora lì, che per un attimo l’ho creduto anch’io. Solo una volta, è successo: non l’ho mai più rivista. Neppure qui. Credo che non sia più riuscita a trovarmi. Credo che non sapesse nemmeno più di avere qualcuno da cui tornare. Perché non si è resa conto di essere partita.
- Io ho sempre creduto che fosse una storiella per spaventarli quando tentennano.
- Io non tentenno.
- Non tentenni, dici, però vai e vieni, tanto che non riusciamo a starti dietro. E guarda che stiamo dietro a tante cose.
- Io non tentenno: sto bene qui, ma sto bene anche lì. Non ho voglia di rinunciare a niente.
- Finché farai avanti e indietro, ti sembrerà sempre di rinunciare a qualcosa. Se ti fermi con noi, dopo ti sentirai diverso.
- Vai lì, se vuoi andare: noi ti aspettiamo qui.
- Fate presto, voi, a parlar di qui, di “dopo”: ma io non so niente di dopo e qui: io sono lì e ci sono adesso.
- Un qui e un dopo siamo noi. Così come siamo stati un lì ed un adesso.
- Non è una consolazione.
- Non siamo qui da - com’era?- un anno, undici mesi, dodici giorni, per consolarti.
- Già, bravi: e allora perché siete qui? Sempre con la faccenda che vi ho chiamati? Io non vi ho chiamati, non mi passava proprio per la testa, non lo volevo. Non che non mi faccia piacere, non ho detto questo. Anzi. Lo sapete quanto ci tenessi, l’ho sempre detto, no, che vi avrei voluti con me? Sempre. Quando me lo immaginavo, era così che me lo immaginavo: con voi.
Ma non…non credo che adesso dipenda da me.
Voi credete dipenda da me?
- Nonna, vieni! Devi svegliare il nonno: mi ha detto che aveva deciso di andare via con la sua mamma e un suo amico della Guerra, ma si è addormentato.
Quando ho aperto gli occhi questa mattina non ricordavo dove fossi.
Un attimo, una frazione di secondo, il tempo che mi ci è voluto perché i ricordi affiorassero alla coscienza, coperti com’erano dall’abitudine delle ere, dalla rassegnazione degli anni e –certamente- anche dalle ore di assenza del sé nella notte.
La luce particolare e l’odore di nuovo mi hanno aiutata a ritrovare più in fretta il presente. Quel taglio di aurora tra il respiro degli scuri -un tepore rosa e arancione- e l’essenza di ambra e sandalo dal legno del parquet: ero a casa.
Il piccolo sicuramente non aveva sentito la sveglia, dalla sua camera. Chissà che anche lui, nel momento in cui ha aperto gli occhi, non abbia dovuto attendere qualche attimo, prima di riconoscere il rovere moro, l’azzurro pastello ed il giallo limone che lo introducevano al nuovo giorno ed alla nuova vita. Una stanza tutta per lui: niente più goccia insistente che dal lavandino si fa largo tra i sogni, nessun odore infestante di pranzi e di cene, che s’insinua nella fase rem e basta anche col brusio impertinente del frigorifero, che confonde sonno e risveglio.
Dio, la casa nuova! L’interno è perfetto, l’arredamento è perfetto, l’isolamento è perfetto, gli impianti sono perfetti; l’esterno è perfetto, la strada è perfetta, la zona è perfetta, i vicini sono perfetti.
Quando ho preso le chiavi dell’auto un brivido mi ha scossa tutta. Il portachiavi lo tocco così spesso, che l’ho già quasi consumato: a volte lo stringo, altre lo tengo semplicemente tra le mani, è una sensazione di pienezza che non credevo che un oggetto così piccolo potesse dare. Che un oggetto, genericamente, potesse dare. Ma lui è la prova che è tutto vero: è vero che mi alzo al mattino, mi preparo con cura e con cura aiuto il mio cucciolo a prepararsi a sua volta; ripassiamo velocemente la filastrocca di turno, mentre facciamo colazione, qualche minuto prima di lavarci i denti ed uscire insieme: lui mi lancia un bacio dal pulmino ed io rispondo con un soffio di labbra sul palmo della mano, mentre giocando con le piume soffici e confortanti del portachiavi, apro lo sportello e salgo.
Salgo in macchina. La MIA macchina.
Sì, perché adesso anch’io ho una macchina, che mi attende sotto casa, mentre riposa nel suo parcheggio perfetto: niente più lunghe, estenuanti salite con la spesa di piombo che mi segna la spalla, nessuna corsa disperata col cuore ed il fiato che sussultano per la paura di non fare in tempo e basta con l’elemosina di un passaggio, che non arriva perché per strada non c’è nessuno, tutti chiusi nell’utero delle loro lamiere climatizzate.
E adesso la mia auto nuova mi porta in un nuovo posto, che mi fa paura e mi eccita al tempo stesso, come quando da bambini si giocava alla caccia al tesoro e quando sapevi che era fatta, che l’avevi trovato e disseppellivi il forziere, mi assaliva la paura che all’atto di aprirlo il bagliore fragoroso delle gemme e dell’oro mi avrebbe accecata, o che tutto si sarebbe fatto polvere e sabbia, al solo sfiorarlo. Ma questa caccia è durata nove anni e mezzo. Sono passati nove anni e mezzo da quella me più giovane degli altri che stringe la mano ai professori, mentre scrosciano gli applausi per quella lode, che era stata l’unica della giornata. Nove anni e mezzo senza riuscire a scorgere le palme, la X e il punto in cui scavare: solo qualche duna di spiaggia smossa dall’istinto di una cane dopo i bisogni. E i bisogni del cane sotto i piedi nudi.
Ma adesso ho trovato lo scrigno e lo apro ogni giorno e i doni che contiene sono veri e li posso scambiare con una casa nuova, una macchina nuova, una pizza fuori, due sere in palestra, una festa di compleanno, gli allenamenti di calcio, il corso di chitarra, le scarpe dei pokémon.
Li posso scambiare con una vita perfetta. Dio, la vita nuova!
Sì, perché adesso anch’io ho un lavoro.
Tutti i miei problemi svaniti, tutti i miei sogni realizzati, tutte le mie potenzialità attuate.
Era prima, una nube nera e densa, un peso insostenibile, una coltre di pece, sporca, appiccicosa, puzzolente e nauseabonda, che copriva questa gioia fresca e leggera, questa spensieratezza; poi un genio della lampada: una strofinata, un desiderio; adesso, la perfezione.
***
Oh, a questo punto il pezzo sarebbe finito, ma mi trovo ahimé nella sgradevole posizione di non riuscire a trovare un titolo che sia davvero soddisfacente, quindi ho deciso di ricorrere a voi e chiedervi una preferenza. Ho ristretto la rosa a delle possibilità a due alternative, alquanto differenti tra loro, ma ugualmente evocative:
1. “La mia vita perfetta”
2. “La mia vita perfetta dopo che Berlusconi si è dimesso e nei dieci giorni successivi all’avvenimento è passata la crisi negli Usa, in due settimane in Germania e Francia, in diciotto giorni in Grecia, in ventuno nel Burundi; Hamas e l’Iran si sono alleati e fanno le vacanze in multiproprietà, è sparito l’Aids, non c’è più la fame nel mondo, c’è acqua potabile su Marte ma a noi che ci frega, visto che le energie alternative hanno salvato il pianeta e un gruppo si scianziati-sarti ha ricucito il buco nell’ozono. Ah, e appena in Italia è arrivato Monti, con un poco di zucchero lo spread è andato giù e il mio telefono ha iniziato a squillare: erano tutti gli Egregio Signore e le Gentilissima Signora cui in questo decennio si erano accatastati le migliaia di curricula che avevo mandato, nell’attesa di un riscontro positivo da parte Vostra, quando l’occasione era gradita per porgere i miei migliori saluti, e puttana la Vostra vacca Eva, stronzi di merda, coglioni della crisi dei mercati del debito dello spread del bund del cazzo di antani!
Votate, votate, votate.
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