lunedì 16 gennaio 2012

Colloquiando

Quando semini richieste di lavoro nel raggio di mille miglia e a 360 gradi tutto intorno a te, al ritmo di cinquanta al mese,  tra candidature spontanee e risposte a richieste in corso, corri il serio rischio di dimenticare a chi hai mostrato la tua disponibilità ed il tuo profilo. Non che sia un rischio tale da implicare conseguenze troppo preoccupanti, intendiamoci –tranne forse quella volta che mi ha telefonato un tizio di sera, sostenendo di chiamare da New York, di aver ricevuto i miei dati dalla famosa ditta tal dei tali presso cui avevo fatto domanda mesi prima, che mi ha illusa con gloriose prospettive professionali di giri del mondo e stipendio astronomico, per finire poi a molestarmi nel più ingegnoso dei modi. No, il rischio concreto è che quando una delle aziende a cui ti sei rivolto ti contatta, oltre a causarti un principio d’infarto perché non sei abituato ad avere la benché minima risposta da parte di nessuno, non hai assolutamente la più pallida idea di chi cavolo sia la persona al di là della cornetta e per quale misteriosa figura professionale ti eri reso disponibile.

- Pronto, la signora Clara?
- S-sì…?
- Buonasera, sono Loretta e La chiamo per il curriculum che ci ha mandato.
- (Cara Loretta, capisco benissimo che per te, dalla tua postazione calda d’inverno e fresca d’estate, col tuo temperamatite a batteria sulla scrivania, la foto del fidanzato che ti sorride – al lato del temperamatite se è gnocco, da dentro il cassetto se è cesso- il desktop col tuo gatto che dorme e la barretta dietetica nella borsetta, tu non abbia pensieri che verso la ditta che sfama te, il gatto e, se non sei tra le più fortunate, pure il fidanzato ma io, incassata in quel solco anatomicamente perfetto –a forma di chiappe- che s’è formato nel centro del divano da cui invio e-mail e lecco francobolli, non riesco davvero a capire chi tu sia, per conto di chi stai chiamando e cosa vuoi da me. Potresti essere –se ti riesce- un po’ più comprensiva o quantomeno specifica?) Ah, sì, certo! Mi dica, Loretta, mi dica pure.
- Abbiamo ricevuto il suo cv e vorremmo, se Lei è ancora disponibile, vederla per conoscerci meglio. È disponibile ad un incontro? Diciamo il 5 del mese prossimo, alle ore 14:30 presso l’Hotel Bellavista?
- (Se riesco a disincastrare i glutei ormai piagati dalla tana che si sono scavati negli anni) certamente, Loretta, certamente.
- Allora ci vediamo il 5. A presto. Click.
- A presto, Loretta, a presto. E io ancora non so chi diamine tu fossi e cosa diavolo volessi da me.

C’è poi anche da dire che io, quelli che organizzano i colloqui negli alberghi li schifo per partito preso: vuoi perché ho sempre il sospetto che alla fine cercheranno di venderti una batteria di pentole, vuoi per pregressa esperienza personale di situazioni in cui ti offrono posti di lavoro a costo zero –per loro- di quelli di rappresentanza e vendita, che ti mettono a disposizione un kit iniziale –che devi pagare- e che ti mandano allo sbaraglio in giro per la regione –ma anche oltre, se ti va- in cerca di clienti, dopo un corso intensivo di due giorni –a Canicattì non rimborsato- in cui ti istruiscono con nozioni fondamentali tipo “il nostro prodotto si vende praticamente da solo, infatti tu fondamentalmente non ci servi, perciò non ti paghiamo”, “se non vendi, non contribuisci attivamente al bene dell’azienda, perciò non ti paghiamo” e “noi siamo una grande famiglia, lavorare con noi è un piacere, perciò non ti paghiamo”. Ah, dimenticavo l’incubo da telefilm-anticrimine-dipendente della trappola mortale della coppia di gemelle serial killer appassionate di camere d’albergo: “Ciao, Clara. Vieni a giocare con noi? Vieni a giocare con noi, Clara? Per sempre…per sempre…per sempre”.

Nonostante tutto avere un colloquio è un’esperienza eccitante: intanto è un evento raro, come una cometa, l’allineamento dei pianeti, un uomo che riesce a scovare da solo il cassetto dei calzini; poi è un modo per mettersi alla prova, cosa che a un disoccupato cronico non capita sovente; infine è l’occasione per usare quel tailleur, che avevi comprato in uno slancio di ottimismo la prima volta che avevi spedito un curriculum, mentre cercando di toglierti dalla lingua il sapore disgustoso della colla sulla busta, ti immaginavi seduto alla scrivania del tuo ufficio, impegnato in una fitta conversazione all’interfono con la tua segretaria, per spiegarle come preferivi il caffè.

Assorbita da queste elucubrazioni, arriva il 5 del mese; arrivano le 14:30; arrivo all’Hotel Bellavista. E insieme a me arrivano altre sei ragazze: una dimostra qualche anno più di me e indossa il suo tailleur; le altre cinque sono decisamente più giovani, della generazione dei jeans a vita rasoterra, che si siedono irrigidite forse per la tensione, forse per il tessuto che sta tentando di spremerle fuori, forse perché sanno che mi stanno mostrando molta più carne di quanta ne vorrei vedere.
Ci raggruppiamo: occhiate, saluti, sei qui per il colloquio? Sì, anch’io, chissà… e scopro che lo sanno tutte: lo sanno, che è un colloquio collettivo. Loro. E fingendo di non essere sorpresa, mi chiedo se sappiano anche cosa sia un colloquio collettivo. E inizio a fantasticare su quelle convention da film hollywoodiano, quelle scene col guru sul palco e sotto il pubblico invasato che si accapiglia; le cene di Natale di quelle grandi multinazionali statunitensi, in cui il Senior Manager è una specie di papà per tutti, che sceglie il figlio prediletto, il dipendente dell’anno, tra i vari fratelli e sorelle che adesso si sorridono, ma hanno passato tutti trecentosessantaquattro i giorni precedenti a tentare di farsi le scarpe a vicenda; oppure anche, non so perché, mi viene in mente il canile, con tutti quegli occhioni tristi, che osservano speranzosi il futuro padrone di uno solo di loro, supplicandolo di sollevarli dalla loro misera condizione, di dar loro una possibilità per dimostrare quanto valgono, quanto sapranno essere fedeli, affettuosi, affidabili e sempre pronti a leccarlo.

Non sono gabbie, le postazioni che ci hanno riservato, bensì banchi disposti a ferro di cavallo, come a scuola. Ed entra la psicologa dell’azienda che saluta, si presenta (non è Loretta) e inizia spiegandoci che questo non è che il primo di tre colloqui: solo poche fortunate passeranno le rigida selezione per arrivare al secondo, ancora meno approderanno al terzo dopodiché ne resterà solo una. Highlander.
E le altre lo sanno già tutte: lo sanno già tutte, loro, che questo incontro durerà tre ore. Quasi come il tema della maturità.
Prosegue la psicologa e presenta l’azienda; poi presenta la mansione per cui ci siamo candidate; presenta l’iter che porterà la sopravvissuta da questo primo colloquio all’apertura della nuova sede in cui si svolgerà la mansione di cui sopra e, infine, illustra come si svolgeranno le successive tre lunghissime ore insieme.
E intanto io penso che è passata mezz’ora e mancano altre cinque mezz’ore e vuoi la scenografia, vuoi l’atteggiamento delle presenti, mi sento sempre più a scuola, durante la spiegazione che prelude all’interrogazione e io non ho più l’età per certe cose, essere l’interrogata, dopo aver insegnato –seppur senza fissa destinazione- per anni.

Non so come sia passata la mezza mezz’ora successiva, non prestavo attenzione alle parole, persa nell’attenta osservazione dei volti e degli atteggiamenti, delle facce stralunate delle candidate: apprensive, impaurite, tese, che non facevano che accrescere la mia sensazione di disagio. Che diavolo ci faccio io qui? Queste hanno paura sul serio: giudicano, si sentono giudicate, si lasciano giudicare. La psicologa spiega e valuta a un tempo, le ragazze sono lì come i cani del canile, mentre io mi sento così lontana da tutto questo, così oltre.

Qualcosa ha riportato la mia attenzione al senso dell’udito, che stavo totalmente trascurando: dev’essere stata la parola test: “adesso incominceremo con i test”, credo abbia detto. I test mi interessano, una volta stabilito che non ho proprio intenzione alcuna di partecipare al gioco del padrone e del randagio, ma che il mio scopo è la pura osservazione delle dinamiche che mi circondano. E poi non faccio un test dagli ultimi esami scritti che ho sostenuto in Università e parliamo di dieci anni fa: la cosa mi diverte. Matita sul tavolo, fogli girati faccia sotto, ecco cosa dobbiamo fare: la colonna di sinistra mostra una seria di cinque coppie alfanumeriche, una delle quali è sottolineata; la colonna di destra mostra le stesse combinazioni, ma in ordine diverso: evidenziare con una croce sulla colonna di destra, la combinazione che sulla colonna di sinistra è stata sottolineate. Abbiamo tre minuti. Tre minuti per copiare una cosa da un foglio all’altro. La psicologa spiega che questo test verifica velocità ed accuratezza. Nonché la conoscenza di tutte e ventisei le lettere dell’alfabeto e dei numeri da 0 a 9, che non è poca cosa, a mio modesto parere.
A proposito: questo test si ripete due volte. Così, per essere certi che la prima non sia stata solo fortuna.
Comunque credo che mi sia andata bene, anche se non vorrei peccare di immodestia. Sempre che l’immodestia sia un peccato (dio, se mi capita un test di religione sono finita).

Seconda parte, nuovo test, nuovi fogli a faccia in giù, stessa matita: si tratta dei quiz di “intelligenza astratta”. Intelligenza astratta, intelligenza astratta. Continuo a ripeterlo mentalmente e c’è qualcosa che stona, ma non ho tempo per tentare di capire cosa sia, perché io li odio, i test di intelligenza astratta: una sequenza di quattro forme –triangolo, quadrato, cerchio, neri, bianchi, frecce, destra, sinistra, alto, basso-, trova la quinta che segue logicamente le prime quattro, in venti minuti. Come fa una forma a seguire logicamente un’altra forma? Ma chi lo dice che dopo un triangolo, un cerchio, un quadrato e un poligono, venga un triangolo anziché un poligono diverso o un pallino nero o un dito medio? Perché dopo una sequenza di quattro si deve ricominciare daccapo? Dove sta scritto che non si possa invece andare avanti, non so, magari con una bella freccia verso l’infinito e oltre? Io ho il terrore di quelli che rispondono correttamente a queste domande; davvero, mi spaventano. Non so se mi inquietino di più loro o quelli che si trovano ad ideare simili prove, stabilendo che debbano effettivamente esistere risposte giuste e sbagliate, sulla base di schemi mentali costruiti a priori ed instillati pazientemente nelle nostre menti in centinaia di anni, allo scopo di poterle meglio controllare e manomettere a piacimento.

Venti minuti di attacco mentale al pensare comune dopo, matita giù, altri fogli, altro test. Tale e quale al precedente. Anche questo per verificare che le risposte distribuite a casaccio prima, siano effettivamente state distribuite a casaccio. In altri venti minuti.

Terza parte della prova, l’ultima per quanto riguarda la fase scritta del colloquio (che nel frattempo tutte ci siamo dimenticate che si tratta di un colloquio): lo psico-test. O psycho-test, a seconda del risultato: nessun limite di tempo, questa volta, per rispondere “il più onestamente possibile” e “possibilmente senza pensarci troppo” ad un protocollo di domande di inquadramento caratteriale tipo “ti capita di arrabbiarti spesso?” o “la vita ti sembra dura?”. Risulta subito evidente a tutte che, per dimostrare che non sei un aspirante suicida, né un serial killer in erba, sia meglio rispondere SÌ, SEMPRE alla domanda “porti a termine quanto ti sei prefissato, anche se incappi in una difficoltà” e NO, MAI quando ti chiedono “provi il desiderio di vivisezionare il gatto di tua sorella (o tua sorella)?”.

Cento domande imbecilli dopo, è l’ora della pausa. Serve caffeina, per affrontare quella che ci viene annunciata come la quarta ed ultima fase del incontro: la chiacchierata su chi siamo e perché siamo qui. Ho resistito alla tentazione di giocare a unisci i puntini con le coppie alfanumeriche del primo quiz; ho tenuto duro imponendomi di non disegnare orpelli osceni alle forme dell’intelligenza astratta; ho frenato il desiderio di riempire il protocollo del test della personalità con la scritta il mattino ha l’oro in bocca il mattino ha l’oro in bocca il mattino ha l’oro in bocca il mattino ha l’oro in bocca e una domanda mi assilla, mentre mescolo lo zucchero: riuscirò ad occultare il mio rigetto per l’omologazione e la massificazione dei cervelli e degli animi? Non trovo una risposta, troppo concentrata sul mio odio per questi del bar dell’hotel, che due euro e cinquanta per un cappuccino, stramaledetti ladri!

“Ciao, sono Silvia, ho ventidue anni e lavoro come pettinatrice di barboncini. Ho fatto domanda per questo posto perché lavorare in questo negozio fai-da-te è il mio sogno: io ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci. Un mio pregio e un mio difetto? Be’, pregio è che sono molto attenta, difetto è che sono molto puntigliosa. Lavoro bene in gruppo, non voglio prevalere sugli altri e sono espansiva. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci”.

“Ciao, sono Francesca, ho venticinque anni e lavoro come assistente sociale. Ho fatto domanda per questo posto perché lavorare in questo negozio fai-da-te è il mio sogno: io ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci. Un mio pregio e un mio difetto? Be’, pregio è che sono molto attenta, difetto è che sono molto puntigliosa. Lavoro bene in gruppo, non voglio prevalere sugli altri e sono espansiva. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci”.

“Ciao, sono Gabriella, ho trentasette anni e lavoro come ho studiato da make-up artist di gatti da mostra. Ho fatto domanda per questo posto perché lavorare in questo negozio fai-da-te è il mio sogno: io ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci. Un mio pregio e un mio difetto? Be’, pregio è che sono molto attenta, difetto è che sono molto puntigliosa. Lavoro bene in gruppo, non voglio prevalere sugli altri e sono espansiva. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci”.

“Ciao, sono Miriana, ho ventisei anni e lavoro come commessa in un negozio di intimo per criceti. Ho fatto domanda per questo posto perché lavorare in questo negozio fai-da-te è il mio sogno: io ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci. Un mio pregio e un mio difetto? Be’, pregio è che sono molto attenta, difetto è che sono molto puntigliosa. Lavoro bene in gruppo, non voglio prevalere sugli altri e sono espansiva. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci”.

(Sì, ve le faccio sorbire proprio tutte: che deve toccare solo a me, questo strazio? Un minimo di solidarietà, che diamine!).

“Ciao, sono Maria, ho ventiquattro anni e ho lavorato per il censimento. Ho fatto domanda per questo posto perché lavorare in questo negozio fai-da-te è il mio sogno: io ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci. Un mio pregio e un mio difetto? Be’, pregio è che sono molto attenta, difetto è che sono molto puntigliosa. Lavoro bene in gruppo, non voglio prevalere sugli altri e sono espansiva. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci”.

“Ciao, sono Francesca, ho venticinque anni e lavoro come assistente sociale. Ho fatto domanda per questo posto perché lavorare in questo negozio fai-da-te è il mio sogno: io ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci. Un mio pregio e un mio difetto? Be’, pregio è che sono molto attenta, difetto è che sono molto puntigliosa. Lavoro bene in gruppo, non voglio prevalere sugli altri e sono espansiva. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci”.

“Ciao, mi chiamo Clara, ho trentatré anni e sono disoccupata. Ho fatto domanda per questo posto per lo stesso motivo per cui l’ho fatta per gli altri millecinquecentoventisei posti: perché sono disoccupata. Io adoro scrivere e disegnare. Infatti ho un blog e la casa piena di fogli e matite. Un mio pregio e un mio difetto? Sono consapevole. Lavoro bene in gruppo, se il gruppo è una massa omologata e riconosce la mia superiorità oppure se il gruppo è di miei simili, quindi ognuno si autogestisce e si confronta, senza giudicare l’altro. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché sono brava.”

L’azienda ha passato al secondo colloquio sei delle sette persone che hanno preso parte al primo. Che fortuna ha avuto: tutte ADOOORANO il bricolage.

3 commenti:

  1. Questa mi è piaciuta, non sai ancora che da noi i test di cui hai parlato vengono svolti dopo il primo trimestre di lavoro?
    Mi piacerebbe leggere un tuo racconto sui colloqui fatti da me, anche se credo ci sia poco da dire, troppo pratico e concreto, infatti Corto si incazza sempre con me per questo mio lato poco sognatore.
    Era self l'azienda o castorama?
    Mi chiedo come mai non mi hai mai chiesto per quale motivo ti ho scelta, sia te che la tua collega. Nonostante vederti in vetrina potrebbe darti una risposta non pensare minimamente sia per le tue gambe e nonostante la mia aria scanzonata ed assente dia un'immagine di me che non corrisponde al vero ci sono motivi precisi ed estremamente professionali; personalmente non credo a nulla di tutte le prove che hai descritto per intuire se una persona va bene per un lavoro, le persone bisogna guardarle negli occhi e diffido (anche se è un errore diffidare di chi non conosci) di chi si spaccia per perfettino e poi fa solo la parte del ruffiano però ho un pregio, non sono prevenuto su nulla e nessuno sino a prova contraria;
    se vorrai mi piacerebbe leggere qualcosa sul tuo ultimo colloquio purche sia sincera altrimenti come non detto, Corto alla fine è un taciturno e pensieroso sognatore, si farà i cazzi suoi.
    Corto Maltese

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  2. Allora intanto chiariamo che io non lavoro "in vetrina", ché suona decisamente male e qui bazzica gente, che pur di gettarmi fango addosso mastica terriccio e mi sputa.
    E poi mi sta venendo il dubbio di un disturbo della personalità:
    Caro Corto, dimmi
    ti capita spesso di parlare di te stesso in terza persona?
    :)

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  3. Perchè Corto è il mio vero essere, devi vederlo in barca per mare, basta guardare la luce nei suoi occhi; lo dice chi lo conosce, non lo dico io; anche se mi delude il fatto che ti preoccupi di cosa possa pensare la gente non mi permetterei mai di parlare in termini volgari di una donna; sicuramente non sono normale, ma tu non hai risposto a nessuna delle mie domande, cara Clara sei troppo sfuggente
    Corto Maltese

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