martedì 3 gennaio 2012

Diario

Il giorno del mio diciottesimo compleanno non ricevetti molti regali, ma me ne sarei ricordato solo uno.

In verità molti regali non li ho ricevuti mai, tuttavia non era una cosa che mi facesse sentire  a disagio, neppure da bambino: quello che arrivava, arrivava ed io ero felice perché sono sempre stato un entusiasta. Gioivo dei compleanni degli altri, delle torte degli altri, dei giocattoli degli altri, esattamente come gioivo dei miei: una gioia piena, calda e confortevole, che mi portavo dentro ed era per me più appagante di qualunque pacco, con qualunque fiocco.

Ma il giorno del mio diciottesimo compleanno, avessi anche ricevuto in dono l’auto, il cane, il giro del mondo, la luna, il sole e tutte le stelle, non mi avrebbero cambiato la vita come quell’unico regalo di cui ho memoria: il diario di mia madre.

Sono sempre stata pigra, amore mio. Tanto pigra che ho comprato questo quaderno appena ho saputo di essere incinta, ma gli presento la penna per la prima volta solo adesso, mentre tu riposi sazio e pulito nella culla accanto a me.
Pazienza comunque, ché lo scopo non era una cronaca della mia gravidanza conato per conato, né le memorie della tua infanzia pannolino per pannolino. No, da queste pagine, che spero di avere la costanza di riempire, vorrei la complicità che mi occorre per scriverti di me. Vorrei lasciarti qui le mie esperienze di donna, vorrei che tu mi potessi conoscere per quella parte di me che sono quando non sono la tua mamma, quella parte di me che tu, dati i ruoli che abbiamo l’uno nella vita dell’altra, non vorrai vedere e che io vorrò tenerti nascosta. E lo vorrei perché tu, un giorno, possa avere di me, della mia vita e delle mie scelte, un’idea più completa che ti permetta di vivere con maggiore consapevolezza te stesso, la tua vita e le tue scelte.”

Diciotto anni. La prima visione che ebbi, appena colte le parole “mamma” e “donna” nella stessa frase, mi traumatizzò talmente che non andai oltre quelle prime righe per i due anni successivi. E se non fosse stato per Annalisa chissà, forse ne sarebbero passati altri due o altri quattro o il diario sarebbe ancora chiuso nella sua scatola beige assieme alla prima ecografia –io, lungo 5 cm: ho sempre avuto il terrore che i miei amici mi vedessero in quello stato-, all’adesivo identificativo della nursery, al mio ultimo ciuccio ed ai miei denti da latte. Tutti, i miei denti da latte. Ma Annalisa mi aveva lasciato dopo sei anni che stavamo insieme: la prima ragazza che avevo tenuto per mano, la prima che avevo portato al cinema con i miei soldi –tre settimane di sudata paghetta più due lavate di piatti e un diecimeno di tema di italiano-, la prima che avevo baciato e la prima, la prima e basta. E la mamma ci aveva provato, a consolarmi, ma io la odiavo perché a lei Annalisa non era mai piaciuta: lei voleva ch’io uscissi con gli amici, che vedessi altra gente, e non capiva ch’io volevo stare con Annalisa sempre e allora come poteva, come poteva capire il dolore che stavo provando? E Marco capiva, forse, ma non era mio padre e aveva da fare con Andrea, che stava per prendere la specializzazione, e con Emma, che era piccola, e loro sì, loro potevano chiamarlo papà e io stavo soffrendo troppo, per aspettare il mio turno, dopo di loro.

Così ripresi il diario. Forse più per un senso di sfida: “voglio proprio vedere, adesso, come puoi aiutarmi, mamma. Voglio proprio vedere.”

E fu lì tra quelle pagine, fissato in un corsivo svelto, ma attento, con l’inchiostro viola sui fogli bianchi, che lo ritrovai. Era proprio lui: il mio papà. Ma non era esattamente lui, perché era un papà-uomo ed io lo sentii subito, che mi sarebbe piaciuto ancora meno di una mamma-donna.

Come fa tanto affetto a diventare odio? E tanti sogni a diventare incubi? Tante speranze a diventare prigione? Sarebbe bastato così poco: che mi avesse ascoltata invece di limitarsi a sentirmi, che mi avesse vista, invece di accontentarsi di guardarmi, che mi avesse conosciuta, invece di inventarmi.”

Io mi sono sempre ricordato tutto, sempre, tanto che mia madre per un po’ aveva creduto ch’io avrei avuto una memoria eidetica anche da adulto, quando invece era solo un’ottima memoria, unita ad una sincera curiosità ed al mio frizzante entusiasmo –il tutto ereditato da lei. Non avevo quindi dimenticato i toni freddi e sprezzanti, le parole prepotenti, gli sguardi rancorosi; non avevo dimenticato quell’istinto di protezione, quel mio frappormi tra loro in difesa della mia mamma (la mia mamma-donna) e non avevo dimenticato le lacrime, le lacrime degli adulti, che mi pungevano gli occhi, la gola ed il cuore, perché per un bambino gli adulti non devono piangere mai.

 “Sono così addolorata, amore mio, così vuota, senza forma, senza senso, cieca e sorda e fredda: l’unico calore che sento è quello bollente delle lacrime e l’unico suono che riesco a far uscire è quello squassante dei singhiozzi. Ti guardo giocare e lo so, che la tua vita sta per cambiare drasticamente e non sarà facile e non sarà bello e non l’avrai scelto tu e potrai solo subirlo, ma non torno sui miei passi: questa è la mia strada, questa sono io e non posso, non voglio far finta di nulla, come la maggior parte della gente intorno; non ho intenzione di annullarmi, di recitare, di soffocarmi. Non ti auguro il mio doloroso percorso, amore, ma il mio desiderio per te è che anche tu decida della tua vita in modo da restare sempre fedele a te stesso, anche nelle tue contraddizioni: che non accetti compromessi e sacrifici, per qualcuno che solo perché non sa volare, ti lega le ali e ti ancora a terra; qualcuno che crede di volerti, ma non ti accetta per quello che sei.”

Non avevo dimenticato, ma non avevo mai capito. E non avevo mai perdonato. È una lacerazione continua, una ferita che non si rimargina mai, come due lembi che non possono essere ricuciti, perché mantenuti sempre tirati, sempre distanti: l’amore di figlio e la rabbia di figlio: amo mio papà, perché è mio papà, ma lo odio perché si è fatto lasciare dalla mamma; amo la mia mamma, perché è la mia mamma, ma la odio perché ha lasciato il mio papà. E odio tutti i grandi, perché decidono sempre tutto loro e decidono anche per me, cose che io non voglio: non voglio mangiare la verdura, non voglio andare a scuola oggi, non voglio prendere la medicina, non voglio vivere in due case.
Almeno la mamma sta sempre con me, perché per fortuna non lavora. Ma lei non è contenta e io non capisco: non sei contenta di stare sempre con me, mamma? Sì, amore, sono contenta, ma sai abbiamo bisogno di soldini e se non lavoro non possiamo fare le cose che vorremmo. Io, mamma, vorrei suonare la chitarra e vorrei fare calcio. E vorrei andare a mangiare al ristorante. Ecco, vedi? Queste cose costano e noi non possiamo farle.

Sono stanca, amore mio, tanto stanca. Io non so quanto ci sia di tuo malessere, in questa situazione, e quanto invece del mio, ma è diventato tutto così pesante, che io mi sento scomparire. Mi guardo intorno e ovunque vedo cose che tu non puoi avere, cose che io non ti posso dare: i tuoi amici con i vestiti nuovi, le scarpe nuove, le matite sempre lunghe, la wii, il ds; i tuoi amici che vanno in vacanza, i tuoi amici che fanno le feste di compleanno, i tuoi amici che fanno tutte le attività che l’uomo ha creato, in questa società folle. E tu li guardi e sei felice per loro, col tuo entusiasmo fresco e sincero, che per me è sempre più un dolore; e poi guardi me e mi dici che vorresti anche tu quelle scarpe, quel gioco, quella vacanza, mamma me li prendi, me li prendi mamma, quando saranno in offerta?

Puoi chiedere i soldini a papà, mamma. Il papà non ce li dà, i soldini, amore mio, non ce li dà.

E poi vedo lui, che non vuole stare con te il sabato, perché preferisce perdersi tra un outlet ed un centro commerciale; vedo lui con la sua auto nuova, lui con le sue cene ed i suoi fine settimana impegnati, lui con la sua playstation ed i mobili dell’antiquario e non ho la forza di dire nulla. E mi sento una pessima madre, perché tutto quello che io non pretendo e che è tuo di diritto, è un torto che faccio a te; e mi sento una pessima persona, perché anziché affrontare i problemi, fingo che non ci siano e lascio che mi seppelliscano sempre di più; e mi sento un pessimo esempio, perché cedo il passo alla paura e chino il capo all’insicurezza. E mi sento sola.  Da tre anni.
Da tutta la vita.
Non ce la faccio più.”

E non capivo perché papà d’un tratto avesse smesso di entrare in casa, quando veniva a prendermi; non capivo perché non potevo più parlare di te, né perché i nonni, invece, di te dicessero tutte quelle brutte cose; non capivo perché papà e Luciana litigassero sempre, ma lei non mi veniva da mettermi in mezzo per difenderla, perché non mi piaceva come sgridava il mio papà. E non capivo perché lei non mi accompagnasse più al parco, perché non mi comprasse più peluche, né perché non ci fosse più il dolce, quando mangiavo da loro e poi, alla fine, non potevo nemmeno più dire “loro”, perché lei non c’era mai.

L’ho fatto: gli ho parlato, gli ho detto tutto. Ho smesso di cedere il passo ad abbassare lo sguardo: ci sono anch’io, adesso, e ho il diritto di passare, come tutti gli altri.
Ancora non capisco come potesse non sapere: “non lo sapevo”, diceva lui, “non lo sapevo”. Non lo sapeva, che un figlio mangia e si lava e si veste e va a scuola e gioca e si ammala e vive, e che vivere in questo mondo costa: ogni respiro, ogni boccone, ogni stagione; non lo sapeva che era ingiusto, che della vita di questo bambino che avevamo fatto in due non se ne occupasse anche lui; non lo sapeva che io sola e senza uno stipendio, i soldi me li dovevo inventare ora dopo ora, settimana dopo settimana; non lo sapeva che un giudice aveva scritto, siglato e registrato che fosse anche lui ad assumersi le responsabilità di questa vita creata insieme . Non lo sapeva e non gli è bastato che glielo dicessi io, no: ha dovuto chiedere ad un avvocato, ha dovuto farselo spiegare da una sentenza, ha dovuto farselo intimare da un pignoramento. E ha dovuto perdere i suoi diritti, per non volersi occupare dei suoi doveri. Ha dovuto fare così, così perché io potessi  sentirmi  più in colpa di prima, così perché’io potessi continuare a sentirmi male, sempre e comunque e nonostante tutto. Ma ho il diritto di passare, adesso, e non mi tiro più indietro.
 Così fai calcio e studi la chitarra, non hai la wii, ma possiamo andare al cinema, e siamo andati al luna-park e in montagna e hai sempre le matite lunghe e non fa niente, se ti viene l’influenza e devi fare la visita per gli occhiali.
La vita è per i forti, almeno questo niente può cambiarlo: la vita è per i forti e io voglio che tu possa essere forte, amore mio. Voglio che tu capisca, che tu comprenda, che  impari e che accetti.”

Ricordo che poi papà è andato via, a vivere su dai nonni, e mi ero abituato a vederlo meno. E poi non è venuto per tanto tempo e tu mi hai detto che aveva deciso di andare lontano. Ancora più lontano. Così lontano che non sarebbe più tornato.

Il giorno del mio diciottesimo compleanno mia madre mi ha regalato i pezzi mancanti nel puzzle della mia vita: non ho ancora compreso, anche se comincio a capire e sto imparando; è lì ed è finito: ognuno dei miei millecinquecento pezzi si trova esattamente dove deve stare ed io posso andare guardarlo ogni volta che ne ho bisogno, nell’attesa che un giorno, oltre a vedere il mio quadro nella sua interezza, io possa scorgere la figura ben più grande, completa, di cui esso non è che uno dei tanti miliardi di pezzi.

La vita è per i forti.”







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