Clara
martedì 4 giugno 2013
Dono
Il bancone di un negozio è una vetrina sull'umanità: ogni giorno ti sfilano davanti persone e masse, vizi e virtù, presenze e assenze e, se sei osservatore attento, ciscuno ti regala il suo dono unico e prezioso.
Per un tipo come la qui scrivente Clara, che rabbia e incazzatura bisogna tirargliele fuori con le pinze chirurgiche e che per natura trova un abominio provare antipatia per qualcuno, un gran regalo è quando arriva Lo Stronzo: quello che entra e non saluta, gli dici "Buongiorno" e non saluta, esce e non saluta, gli urli "Grazie e arrivederci!" e non saluta. Sì, perché uno così non puoi proprio evitare che ti stia sulle palle e, il fatto di non riuscire a scambiarci neppure un fiato, solleva dall'altrimenti inevitabile senso di colpa per l'energia negativa inviatagli.
In materia di rivalutazione delle dinamiche personali familiari, aiutano invece quelli che (la stragrande maggioranza) dicono "faccio solo un giro" e li vedi frugare ogni angolo e ogni rettilineo, toccare laqualunque, raccogliere qua e là indifferentemente oggetti grandi e piccoli, colorati e neutri, per la cucina, per il bagno, per la camera, per il giardino, per il salotto, per il patio, per poi uscire senza acquistare nulla, lasciandosi alle spalle una devastazione che neppure Attila re degli Unni. Sì, perché gentile clientela, non illudetevi con la solita scusa scaricabarile che "io mollo tutto dove mi pare perché c'è chi è lì pagato per mettere a posto i miei casini", perché questa non è altro che una giustificazione inconstistente del vostro molle abbandono, del vostro senso di rivalsa su una mandria di figli che avete mal educato e vi seminano i pavimenti di panni zozzi e puzzoni (ché "il cesto della biancheria è troppo lontano e poi ha il coperchio da alzare e riabbassare ed è una faticaccia e poi comunque chissà come un modo per buttarsi in lavatrice lo trovano perché poi io addirittura li ritrovo già piegati nei cassetti"), di una madre che ha cercato di ben educarvi, ma vi dava l'assillo mettendovi i calzini della palestra sotto al cuscino, per farvi capire come la naturale evoluzione biochimica di un prodotto a un passo da una putrefazione, si possa prevenire grazie ad un semplice gesto, o ancora di una moglie che trascorre le sue giornate a non far altro che spendere i soldi che voi soli portate a casa, stanchi, disfatti, nervosi, frustrati, e quindi "che almeno si dia da fare in casa, 'sta zecca sanguisuga", ma tanto niente, perché ha assunto una colf. Quindi cari, quando lasciate traccia del vostro passaggio come l'undicesima piaga d'Egitto, sappiate che, per dirla con parole certamente condivise da ogni capo/proprietario di questo mondo, noi attendenti siamo pagate per 1) vendere 2) vendere 3) vendere 4) vendere eccetera finché non è finito anche l'ultimo tassello che tiene su i bancali; non per farvi da balia, non per correre dietro alla vostra diseducazione o alle vostre piccole ripicche da serial killer in erba (un classico, che ha un oggetto del suo odio, ma anziché prendersela con quello si sfoga su dei simulacri). "Quindi scusa, di quale rivalutazione personale familiare parlavi sopra?", vi starete domandando, se non vi siete persi nel frattempo... be', la rivalutazione delle energie spese durante le quotidiane infinite battaglie con mio figlio, atte a renderlo in futuro un adulto forte e indipendente, che non abbia bisogno di appoggiarsi continuamente a qualcuno e che non vada in cerca di una compagna-serva, una commessa-serva, un'amica-serva, per ricreare il rapporto malato con una madre-serva. Che poi gli individui che si rendono inconsapevolmente servi di altri, ahimè, lo fanno nel manipolatorio tentativo di rendersi indispensabili, guidati dalla paura di restare soli. Ma questa è un'altra storia.
Poi ci sono quelli che entrano, ti salutano, ti illustrano perché sono venuti da te, si servono e pagano, il tutto nel giro di tre minuti e dodici: i Bolt dello shopping, che io resto lì basita con la salivazione azzerata dall'immensa ammirazione per cotanta sicurezza , concretezza, pragmatismo, capacità decisionale e conoscenza delle proprie esigenze. TA-TA-TA: pensato-detto-fatto. Un regalo notevole, ricordarmi che esiste la possibilità di sapere esattamente ciò che si vuole e di agire per ottenerlo.
Per contro, opposti e complementari, arrivano anche i bradipi confusi, ossia i tipi che esordiscono come gli Unni, ma con un interrogativo finale che fa la differenza: "Faccio un giro?". E lì è la fine. Insomma, se tu chiedi a me se è il caso o meno che tu faccia un giro, io già mi prefiguro svolgimento e finale della tua visita: entri indeciso, ti soffermi un tempo indefinito e incredibilmente dilatato - tanto che arrivo a un punto che mi ero persino dimenticata che tu ci fossi - e poi esci a mani vuote, camminando all'indietro e lanciando ultimi sguardi colmi di rimpianto a tutto ciò che non hai comprato, dubbioso e titubante fino all'ultimo, quando abbandoni il moto a granchio e scompari nel negozio accanto (ove verosimilmente ripeterai quanto sopra). E loro appunto mi riprongono il dilemma della scelta procrastinata all'infinito, della perenne indecisione, del tempo perduto in un limbo cosmico, energie e giornate buttate nel cesso, e allora penso: "wow, c'è anche chi è messo peggio di me". E per qualche ora ritrovo una sorta di
spinta decisionale, un moto indirizzato all'azione.
E infine vi è il dono più gradito, che ti resta dentro come linfa, che diventa parte di te, del tuo tessuto, che attraverso gli occhi del cuore diventa nutrimento per i corpi tutti e per l'anima intera: sono gli individui che entrano per farsi una coccola e ti permettono, in questo modo, di far loro un bene che fa bene anche a te. E costoro meritano un esempio particolare e non una generalizzazione.
Ieri pomeriggio è entrata una signora: un'età indefinita tra i sessanta e i settanta, una donna-moglie-mamma senza tempo, né alta né bassa, ma grassoccia quel tanto da risulatare tracagnotta; la tinta casalinga con la ricrescita a vista, instabile sulle gambe, dura d'udito. È entrata senza salutare e ha iniziato a girovagare apparentemente senza meta, contemporaneamente a una coppia che ha detto buonasera e ha chiesto il mio aiuto e, quindi, ho rivolto loro la mia attenzione, trascurando la signora errante che, di quando in quando, spuntava dietro un espositore o un altro. Passata almeno una mezz'ora buona, dieci minuti a sentirla armeggiare con le tende senza vederla, le sono andata incontro, confesso, più per paura che facesse dei danni, che non per volontà di attenderla. L'ho trovata china, curva sulle superofferte-due-confezioni-cinqu'euro, mentre cercava contemporaneamente di passare in rivista ogni modello possibile, per scegliere quello più giusto, e di trattenere i sacchetti che le fermavano la circolazione ai polsi e che le cascavano da tutte le parti. Circa dieci minuti li abbiamo trascorsi ad aprire insieme tutte le confezioni e io ancora pensavo "tutto questo tempo per cinque euro", ma con vergogna perché c'era qualcosa nei suoi occhi di piccola dolce signora tracagnotta ipoudente con la ricrescita, una limpidezza di bambina provata da preoccupazioni più grandi di lei, ma che non le hanno rubato la capacità di gioire e meravigliarsi delle piccole cose. E intanto mi chiede scusa per il disturbo mille volte e mi spiega che non vuole spendere tanto perché, alla sua età, di cose per la casa ne ha, ma ha anche tanta voglia di cambiare e trovare esattamente quello che desidera in quel momento e non prendere tanto per prendere. Mi chiede consigli su cosa starebbe meglio in casa sua e ridiamo insieme, perché però io non lo so, signora, com'è casa sua. Poi prende un'altra tenda per un'altra camera, perché le piace la forma, anche se il colore no e le dico guardi, signora, che ci sono anche altri colori e lei mi dice grazie mille volte, perché è anche ipovedente e gli altri colori non li aveva trovati. Adesso è la volta dei tappeti, perché ha proprio deciso di rinnovare le stanze, con pochi piccoli tocchi significativi e pochi piccoli euro e allora via, a srotolare tappeti di ogni dimensione e colore per altri dieci minuti e lei ne vorrebbe due uguali, ma due uguali non ci sono per cui ne cerchiamo due che stiano bene insieme. Infine vede le farfalline magnetiche per tenere sollevate le tende, ma ci sono tanti colori e lei vorrebbe trovare esattamente quello che sta meglio con quelle che ha scelto prima e allora cinque minuti, con i fiori e le farfalline rovesciate sul bancone, posate una ad una sul tessuto per scovare l'abbinamento giusto. Poi mi chiede del lenzuolo sotto con gli angoli fucsia che le piace tanto, ma fa i conti e dice che forse è meglio un'altra volta.
Quanto fa?
Sono 21, signora.
Non può fare 20?
Ci provano tutti, ma lei ha un tono diverso e quello sguardo...
Va bene.
La ringrazio! - e s'illumina – Altrimenti avrei dovuto lasciare una farfallina, perché mi sono rimasti solo 20.
Ecco, questi sono quelli che ti restano dentro come linfa, diventano parte di te, del tuo tessuto, che attraverso gli occhi del cuore nutrimento per i corpi tutti e per l'anima intera: sono gli individui che entrano per farsi una coccola e sono una benedizione per l'umanità intera, perché quando non c'è più la voglia di farsi una coccola, nulla vale più la pena.
venerdì 8 marzo 2013
L'8 m'arzo
Ci sono stati tempi e luoghi in cui la donna ricopriva, all'interno della società, ruoli di responsabilità e guida spirituale, medica, educativa, ed era indiscussa e rispettata consigliera; tempi e luoghi in cui l'essere umano si riconosceva parte della natura e non padrone di essa, in cui il forte legame del femminile con la forza creatrice, con l'Amore, era chiaro ed evidente, accettato senza invidia o frustrazione dal maschile, che dal canto suo era ben consapevole del proprio ruolo: complementare e non superiore, in alcun modo in competizione. Società passate, che oggi si sono ridotte a comunità, a tribù, a clan, lasciando il posto a strutture globali sempre più distanti dalla vita: artificiali, totalmente inconsapevoli del fluire dell'essenza e del significato dell'esistenza, in cui ogni istante viene programmato e organizzato per fare, fare, fare sempre qualcosa, impedendoci così di vedere e sentire chi siamo davvero, cosa vogliamo, di cosa abbiamo veramente bisogno. Società che sono lavandini colmi, con un tappo sul fondo, in cui ciascuno si lascia obbligare a nuotare contro corrente nel gorgo, per paura di finire nello scarico buio. E in queste società totalmente innaturali, la saggezza intuitiva della donna costituisce un pericolo, perché essa è in grado di vedere e mostrare l'insensatezza dell'opporsi alla direzione dell'acqua, l'inutile annaspare in queste stagnanti.
Non è un caso che in altri tempi e luoghi, le divinità fossero la Natura - Madre e Padre - e tutte le sue manifestazioni, mentre i cambiamenti siano poi cominciati con la personificazione degli dèi - uomini e donne a capo degli elementi - e abbiano poi raggiunto l'apice (ossia toccato il fondo) con la semplificazione in un unico dio, maschio e per di più vecchio: l'anti-capacità creativa in assoluto.
La proprietà privata e la donna sfruttata per il suo dono di concepire nuova vita, obbligata ad appartenere ad un uomo, per garantirgli che, una volta morto, i suoi beni potessero passare ad una sua certa progenie: svilita a tal punto, da portarla a odiare quel dono e dimenticare, per sopravvivere, la sua saggezza antica.
Santa o puttana, rimodellata a suon di botte e privazioni sulle più disperate esigenze di un uomo rimasto senza consigli, allo sbando, senza quel tramite tra cielo e terra che ha deciso di recidere con la forza. Perché di forza l'uomo ne ha di più, indubbiamente: forza bruta, potenza, possanza, pugni, calci, voce grossa. Nuovi valori a fondamento di un nuovo mondo, che piano piano va sfaldandosi sempre più, verso un'inesorabile dissoluzione.
Millenni di donne cui è stata fatta dimenticare la propria identità e che adesso, nel tentativo di reinventarsi, guardano all'unico modello che è rimasto loro, in alternativa al binomio Vergine-Maddalena, vale a dire il modello maschile, che non fa che acuire l'artificiosità del nostro tempo, dove donne-maschio (e non faccio certo riferimento alla sessualità) si prestano a umiliare, ferire, svilire altre donne, per sopravvivere: mangiare o essere mangiate. Donne che vivono in funzione dei comandamenti del maschio e che (soprav)vivono le loro vite per adeguamento o per contrasto ad essi: la donna che sta a casa a badare al piccolo nucleo familiare (e lo tiene isolato dagli altri quanto basta perché non vi trovi aiuto, ma solo misura, giudizio e confronto) e la donna che è manager rampante e in casa non c'è proprio mai; l'eterna bambina bisognosa, che passa dal padre al marito, convinta di aver bisogno di protezione, o quella che scappa di casa e non chiede mai aiuto a nessuno; quella che cede le chiavi dell'auto al maschio, ché è stato deciso che non deve essere in grado di parcheggiare, e quella che pilota lo shuttle e lo fa combaciare al millimetro, per fare rifornimento nello spazio. Donna, che ha accettato l'abito che le è stato cucito addosso nei secoli e si divide solo tra chi se lo tiene - e ci si nasconde sotto -, e chi se lo strappa via, assieme a brandelli di sé.
Non esiste festa della donna, mie carissime madri, sorelle, figlie, amanti, finché noi tutte, insieme, non facciamo che l'essere donna di per sé sia - nuovamente - una festa.
martedì 5 marzo 2013
E uscimmo infine a riveder le Stelle
Partendo dal presupposto che io, del Movimento, non condivido l’assunto di partenza (se avete lo scarico intasato e la casa piena di merda, ma la casta degli idraulici vi sta sul cazzo perché son dei ladri, liberissimi di usare il turpiloquio come sopra e chiamare un gastroenterologo per spurgare i tubi; io però scusate, ma continuo a preferire un omino con la salopette e la chiave a pappagallo, e non smetto di cercare finché non ne trovo uno che sia più onesto degli altri. Poi, se mi va, imparo il mestiere da lui), è inutile negare che come primissima reazione mi sono molto alterata.
Sì, perché dopo un decennio da disoccupata cronica - in una regione morta di tutto - a sentirmi dire millemila volte che ero “troppo qualificata” da chi cercava una segretaria, che avevo “un profilo troppo alto” da chi aveva bisogno di una commessa, che il mio titolo di studi era “troppo elevato” da chi voleva una cameriera, la settimana scorsa mi arriva il boom, il climax, lo zenit, la batosta finale, la beffa definitiva, in cui un terzo degli elettori nazionali (addirittura la metà tra i miei compaesani!) ha deciso di lasciare le redini del comando di un intero Paese a un manipolo di genti, che dell’impreparazione, dell’assenza di qualifiche, del basso profilo ne hanno fatto vanto e bandiera. “Mannatevenaffanculo!”, è proprio il caso di dire.
Parzialmente ripresa dallo shock – e incoraggiata delle persecuzioni minacciose, virtuali e personali, di certa “base” cinquestellina -, ho deciso di cercare il confronto diretto. La primissima discussione è intercorsa tra me e un amico di vecchia data, ed è però durata sì e no tre minuti: “Tutti a casa”, “Hanno rotto i coglioni”, “Bastardi, adesso vi facciamo vedere noi”. Va be’, saluti alla famiglia, arrivederci e grazie. Poco dopo mi sono imbattuta in una nota auctoritas locale, dalla quale sono stata discretamente sconvolta, ché a parte alcuni deliri mistici (“Grillo ha sempre ragione (…) prevede il futuro (…) dev’essere in contatto con qualche divinità, ahahah!”), che per me ognuno può libero di professare la fede che crede, e le solite contraddizioni diffuse (“La laurea non vuol dire niente (…) l’ottanta percento degli attivisti è laureato (…) essere onesti è più importante che essere preparati (…) io sono laureato.”), la cosa che davvero mi ha traumatizzata è stato il bizzarro concetto di libertà personale del mio interlocutore, che è venuto fuori dalla conversazione:
- Vedi, cara, prendi ad esempio una cosa come il matrimonio tra individui dello stesso: ecco, per me discutere una legge così sarebbe…
- … inutile. Non serve una legge in materia, c’è già la Costituzione, che oltre all’uguaglianza e alla pari dignità eccetera, esplicita che lo Stato deve farsi garante delle libertà individuali dei cittadini, a prescindere da … e in materia di…
- Sì, ma – pausa di riflessione – questo vorrebbe dire imporre a tutti il tuo punto di vista, invece io sono per la democrazia e la libertà individuale vera.
- Scusa, che c’entra la democrazia? La libertà individuale “vera” in campo personale è che se io voglio sposare una persona del mio sesso e tu no, io sposo una persona del mio sesso e tu no.
- Eh no: così tu imponi il tuo punto di vista su di me. La vera libertà è che se tu vuoi una cosa in fatto di morale e io un’altra, facciamo un referendum e poi passa il comportamento scelto dalla maggioranza.
- Ma scusa un attimo: se io voglio sposare una persona del mio sesso e tu no, e io ho il diritto di farlo come tu hai il diritto di non farlo, il mio diritto (il mio “punto di vista”) non incide minimamente sul tuo; al contrario, se io voglio sposare una persona del mio sesso e tu no, e io non ho il diritto di farlo perché tu e la maggioranza avete deciso così per me, il vostro punto di vista impedisce a me di vivere la mia vita come voglio io, e a te no.
- La vera libertà sta solo nella democrazia.
- Se’, va be’, cia’.
Ecco in effetti i primi confronti non sono andati benissimo così ne ho cercato un ultimo, ma questa volta sono andata direttamente dal neo-eletto deputato della mia città: dapprima l’ho contattato sul web (d’altronde è il loro mezzo preferito: when in Rome, behave like Romans) e lui è stato non solo cordialissimo, ma anche notevolmente diplomatico nei modi e nei tempi di risposta; infine mi ha proposto un incontro vis-à-vis, che io ho accettato ben volentieri. Più giovane di me, assolutamente iper-tecnologico, telematizzato, un sorriso da ex Zecchino d’Oro e la ferrea convinzione di avere dalla sua solo giovinezza, abilità tecnologiche e purezza di cuore, e il conforto di essere sostenuto e guidato da un team più preparato di lui alle spalle; ciecamente convinto della scelta di compattezza e unanimità del Movimento, sicuro che “la cosa giusta” fosse che lui (e i suoi nuovi colleghi a Roma) fungessero solo da tramite, da portavoce. No, non di Grillo (sempre dal suo punto vista): del “gruppo” e dei “cittadini”. Respiro profondo. Tanta umana simpatia, nel senso etimologico del termine. E poi una moltitudine di pensieri, il primo dei quali è stato di forte repulsione e condanna nei confronti di questa ennesima società nella società, che sta sfornando giovani uomini e donne che trovano corretto essere dei portavoce, anziché dei protagonisti: protagonisti della propria vita, in primis, e poi attivi collaboratori nel tessuto della convivenza civile, ma in quanto individui. Onesto, pulito, fresco, entusiasta, pieno di speranza e di meraviglia, ma inconsapevolmente arreso ad un’azione radicale a tappeto di annullamento della persona/personalità, in nome di un bene collettivo superiore, imposta dall’esterno e senza essere prima passati per la sacrosanta rivendicazione della propria individualità.
Sì, c’è il forum nel quale ogni cittadino potrà fare la sua proposta di legge, sì c’è la trasparenza, sì la rinuncia al venticinque dello stipendio (ma che fine faranno questi soldi? Perché noi continuiamo a pagarli, non è che non vengano emessi: l’assegno resta lo stesso, solo che ognuno di questi deputati e senatori ne percepirà solo una parte. Dice “l’intenzione è di fare come in Sicilia: un fondo comune per le piccole e medie imprese”. L’intenzione. Poi vediamo i fatti. Certo è che, per esempio, ci si potrebbe dare una mano alla sanità o alla scuola, perché è vero che le imprese – forse – utilizzeranno il fondo per mantenere o creare posti di lavoro, però se poi il neo assunto deve fare i raggi e qui in provincia non c’è più radiologia o una madre trova un impiego, ma non sa dove lasciare il bambino…) e sì anche la trasparenza, ma io resto dell’idea che c’è qualcosa di troppo – la violenza verbale – e che contemporaneamente manca qualcosa- forse pragmatismo, concretezza, non so -.
Ma se anche mi convincesse proprio tutto, io continuerei a non fidarmi ed essere inquieta, per questo motivo: la struttura portante di questa massa compatta, compresi e anzi in primo luogo gli elettori, è totalmente, categoricamente, assolutamente e, ahimè, irrimediabilmente ostile a qualunque tipo di critica. Non che altri in passato siano stati diversi, ma anzitutto io detesto i “ma lo fanno tutti”, in quanto assolutamente diseducativi (la prima cosa che diciamo ai bambini, quando si giustificano per una sgridata dicendo “ma lo fanno anche gli altri” è “e allora se gli altri si buttano da un ponte?”), e comunque i moti a così abbondante partecipazione popolare del passato – partecipazione acritica e dettata dallo scontento - non hanno mai portato a una gran bella conclusione.
Il punto è questo: un gruppo che nasce per contrasto, che si dichiara differente e che di questa differenza ne fa il cavallo di battaglia, ma che una volta messo davanti alle solite provocazione reagisce nel solito modo, in cosa differisce davvero? Gran parte degli elettori non ha neppure letto il programma, mentre chi l’ha letto si fermato a “tagli dei costi della politica” e “Referendum-euro”, e tutti si buttano comunque in discussioni infinite, replicando punto per punto nei dibattiti sulle piattaforme multimediali, ma senza sapere nulla di nulla, così solo perché si sentono investiti cavalieri di chi, di cosa? Gente che non vuole sentire, non vuole vedere: tu scovi una possibile magagna, gliela mostri, ti poni due domande, chiedi spiegazioni e questi cosa fanno? Anziché correre a verificare che la magagna sia solo un disguido o piuttosto una montatura, “un gomblotto”, ti dicono “Vaffanculo”. Come se vai dal medico e quello ti dice “Senti, io qua vedo un’ombra: a me sembra tanto un tumore in metastasi e che ti restino due mesi di vita” e tu, al posto di fare altri esami e correre a cercare un secondo parere, gli vai a muso duro sulla faccia e lo mandi a cagare. “Oh, sai che c’è un banner sul blog, dove fai le donazioni, che ogni volta che ci clicchisopra dai anche dei soldi che, da contratto, vengono presi dalle tue tasche di donatore cinque stellino e finiscono in quelle del buon Beppe? Guarda, puoi verificarlo facilmente così: (spiegazione)”. “Vaffanculo, stronzo pezzo di merda, servo della gleba, schiavo della kasta!”. Ma parliamone: io per prima cosa andrei a vedere di persona, visto che l’anima del Movimento ti dice che devi essere tu a prendere in mano le situazioni e non rivolgerti ai “professionisti”, e poi pretenderei che Grillo, con la sua proverbiale trasparenza e onestà – che sono altri due punti fondamentali -, mi spiegasse un po’ bene la questione. E invece no: difesa a oltranza e insulto libero. Certo, i giornalisti vanno a sfidare, spulciare, tagliare, imbastire, ma non è che proprio partano dal nulla, un po’ di buon materiale ce l’hanno: e uno che paragona le unioni gay a quelle con gli animali, e quello non capisce la domanda “Come si vota il Presidente della Reppublica?”, l’altra che ha i vasi di rosmarino sul balcone e allora vuole fare il Ministro all’Ambiente. Quello che può coinvolgere altri cittadini nel Movimento non è dare della faccia di cazzo a Renzi o rifiutare il rimborso elettorale, perché l’insulto libero e il “dagli alla kasta” hanno già tirato su tutti quelli che così si potevano tirare su; quello che altre persone vogliono vedere dal “nuovo che avanza” un atteggiamento veramente nuovo: la stampa, gli schieramenti opposti, la base di altri partiti ti attaccano e ti fanno la radiografia e scovano il pelo nell’uovo? Bene, conferma e ammetti: c’ho il pelo nell’uovo. Ho lo scheletro nell’armadio. Sono pieno di difetti, perché sono umano, e ti chiedo – magari con gentilezza – di accettarmi per quello che sono, perché con tutte queste mancanze e questi nei, io ti prometto che mi impegnerò al massimo, che darò tutto me stesso perché in questa cosa ci credo e non ho bisogno di difenderla, perché anch’io lo so che non è perfetta, ma ho fatto, faccio e farò del mio meglio. E questo è il grande problema che sta alla base di tutti i rapporti umani: idealizziamo noi stessi, idealizziamo l’altro, perché non siamo in grado di accettare nessuno per quello che è e, quando capita che qualcuno attribuisca qualche mancanza a noi o a chi amiamo (o ammiriamo), noi siamo i primi che non la vogliamo vedere, perché incrinerebbe l’immagine che ci siamo costruiti nella testa e non saremmo in grado di continuare ad amare (o ammirare) allo stesso modo quella data persona. O noi stessi. Come gli alti prelati che, messi davanti al cannocchiale di Galilei, anziché buttarci un occhio e vedere ‘ste benedette macchie solari (o lune di Giove, non ricordo bene), ripetevano imperterriti “non può essere”.
E allora magari insegnatecela così questa rivoluzione: “è vero, siamo impreparati, abbiamo accettato di delegare le scelte importanti, in molti casi è meglio se non andiamo in televisione, ché ci massacrano, ma abbiamo intenzione di mettercela tutta. Adesso. Poi magari avremo cedimenti, cadremo, molleremo, ma per ora volete, per favore, darci un po’ di fiducia per ciò che siamo? Perché siamo come voi.
giovedì 21 febbraio 2013
Concorsone, bell'animalone
Allora, il concorsone: la prova scritta per gli insegnanti d'inglese.
Entro in questa scuola (un liceo artistico dalle titaniche dimensioni e che dei Titani ha fatto la medesima fine) e cerco l'aula che mi è stata assegnata. Una volta dentro mi scelgo un posto (in fretta, perché i nomi sulla porta sono 21 e i banchi 19): gli ultimi arrivati faranno il gioco delle sedie) e, ovviamente, mi becco quello col grosso buco al centro. Vabbè, sono in tempo per scivolare con estrema nonchalance verso quello accanto, un attimo prima che vi si segga un'altra concorrente. Sì, perché sulle direttive del ministero non siamo candidati, ma nel rigore etimologico più estremo siamo "concorrenti". E infatti sembra di sentire i discorsi del dietro-le-quinte di un quiz a premi, uscire dalle docenti bocche di precari quindecennali, che si lamentano di come sia "un'ingiustizia che noi dobbiamo sostenere tutto l'esame in inglese", perché "ma cosa credono che siamo?" e "cosa pretendono da noi?", fino alla perla di quella che "a noi dovevano darci più tempo che agli altri, almeno il doppio, perché noi prima pensiamo la risposta in italiano e poi dobbiamo tradurla"; per terminare con i commenti a caldo a test concluso, quando rimostranze corali si alzano, per protestare per il fatto che "ma dovevano dirlo prima, che queste domande servivano per verificare solo la conoscenza della lingua e non la capacità d'insegnarla: non è giusto!". Non è giusto...
Quindi ricapitoliamo: un intero istituto farcito d'insegnanti d'inglese, che hanno problemi a rispondere a quattro domande nella lingua che insegnano e che ancora fanno il passaggio mentale dall'italiano all'inglese, anziché pensare direttamente in inglese. Io ci sogno, in inglese! E non lo dico per darmi delle inutili arie, ma perché in tutta Europa, per legge per insegnare una lingua straniera, al docente è richiesta una padronanza della lingua tale per cui ALMENO si sia in grado di pensare in quella lingua. Che poi non è neppure un'abilità, ma un processo psico-linguistico automatico che scatta quando si raggiunge una determinata conoscenza.
E invece è questa, la gente deputata all'arduo compito di far imparare l'inglese ai vostri figli: gente che non ha capito che se ci sono una prova scritta da sostenere in lingua e poi una orale, che consiste nella simulazione di una lezione (sempre in lingua), non solo le capacità didattiche saranno valutate in quest'ultima, ma l'importanza attribuita alla padronanza della lingua è molto alta. Almeno in teoria. E se la commissione che valuterà i compiti sarà composta da colleghi di pari livello, questa gente continuerà ad istruire i nostri figli e i figli dei nostri figli a tempo indeterminato.
Sì, è un post autoreferenziale, questo, perché io sono invece maledettamente brava e altrettanto maledettamente disoccupata cronica, perché della mia bravura fottecazzi a chiunque. Perché se, come ho potuto constatare, è vero che "chi sa sa fa, chi non sa insegna", allora che qualcuno me la dia, la possibilità di fare!
martedì 12 febbraio 2013
Fumata Tutta
Ci vuole molta più forza ad ammettere con se stessi e di fronte agli altri di non essere in grado di svolgere il compito che ci siamo accollati, di quanta ce ne voglia per tentare di nascondere – a se stessi e agli altri – che siamo arrivati ad un momento della nostra vita in cui la bilancia su cui posano da un lato le energie che possiamo impiegare per fare ciò che ci si aspetta da noi e, dall’altro, il risultato che ci si aspetta da noi, pende più o meno decisamente a favore del secondo piatto.
Perché dobbiamo riuscire a tutti i costi? Perché fare un passo indietro, cambiare direzione o semplicemente stare fermi è considerata una bruciante sconfitta? Perché sconfitta? Qual era il premio, in caso di vittoria? Gloria, riconoscimento, denaro? Gloria agli occhi di quelli che sperano sempre e costantemente in un nostro fallimento, perché solo così riescono a non pensare al fatto che considerano la propria vita un fallimento? Riconoscimento di fronte a chi cerca sempre il confronto, per potersi illudere che aver fatto meglio di noi permetta loro di scampare, ancora una volta, a quella vocina dentro che dice che comunque anche quel “meglio” non è mai abbastanza? Denaro, per poter restare all’interno del cerchio di schiavitù all’inessenziale di cui esso stesso è causa ed effetto? Ah, no, è soddisfazione personale, giusto? Il senso di aver compiuto fino in fondo il nostro dovere, che forgia il carattere, e chi se ne fotte se stiamo male e soffriamo, se ci usiamo violenza, se andiamo contro a ciò che vogliamo fare, dire ed essere, e che altro non è, se non un debole tentativo di dimostrare al solito giudice interiore (le rielaborazioni delle voci di genitori, professori, bulletti di scuola) che valiamo di più quanto creda, molto di più di quel poco che invece sempre ci dice che valiamo.
Quanta debolezza, quanta tristezza, quanta inconsapevolezza, vedo in questi giorni: schernire un vecchio, che ha avuto il coraggio di dire “Non ce la faccio, cazzo, io non ce la faccio” davanti al mondo intero. Davanti al mondo intero. Infilare, girare, rigirare ancora e ancora miliardi di coltelli nella piaga di un uomo di ottant’anni che ha ammesso “Non ho sufficiente energia per rappresentare Dio in Terra”. Riuscite per una frazione di secondo ad essere consapevoli delle vostre azioni, spettatori attenti dei vostri pensieri, sinceri con voi stessi quel tanto da permettervi di riconoscere che dietro a questo vostro farvi beffe di una tale grandezza di spirito non c’è altro che la vostra invidia? Invidia nei confronti di un uomo che ha avuto il coraggio di scrollarsi di dosso il peso di una vita che non riusciva più a sostenere. Avete presente quando siete presi dalle vostre preoccupazioni di lavoro, soldi, figli, compagni e arriva puntuale quello che vi dice che comunque il suo lavoro è più difficile, i suoi problemi economici più gravi, i suoi figli più problematici, il suo compagno più rompicoglioni? Ecco, certe volte “quello” siete proprio voi. Oh, sì, Ratzinger aveva vestiti d’oro, gioielli, servitori, ammiratori, non doveva pensare a far la spesa, rifarsi il letto, pulire casa, ma questi sono i vostri riferimenti, la vostra vita, i vostri fardelli e il loro fastidio lo conoscete solo voi: il suo fardello lo portava lui e solo lui ne conosceva il peso, e quanto questo peso gli gravasse sulle spalle. E sì, certo, non è finito in mezzo a una strada, non ha l’Imu da pagare, una famiglia da mantenere, ma questi sono i vostri vincoli, le vostre schiavitù: solo lui potrà sapere quali conseguenze dovrà affrontare, quali scotti pagherà per questo gesto e quanto tutto gli sarà greve.
Io non sono Cattolica, né religiosa in generale: non sono neppure battezzata, quindi se volete catalogarmi come la classica fedele che difende i suoi pastori a spada tratta fatelo pure, ma niente sarebbe più lontano dl vero. Io credo in una forza creatrice che non possiamo concepire, cui tantomeno possiamo dare un nome; e credo che quella forza creatrice sia presente in ogni forma di energia, dal minerale alla pulsar, passando per la balena e l’uomo; credo che la forza traboccante da cui proveniamo, di cui siamo fatti, e a cui – un giorno – torneremo, non ci origini per farci scontare chissà quali colpe, farci superare chissà quali prove, farci comprendere chissà quali inarrivabili verità, ma solo perché non può farne a meno. Insomma, che siamo come macchie di sugo su una camicia, schizzate via perché gli spaghetti ne erano carichi: abbiamo forme diverse, diverse dimensioni, ma fatte dello stesso pomodoro. Io credo che l’unica verità siamo noi - ognuno per sé e poi altro da sé e, infine, oltre a sé - e che l’unico modo per scorgere tutto, sia per prima cosa scorgere noi stessi (forma, dimensione, pomodoro) e non possiamo farlo, se non ci permettiamo di ammettere cosa fa per noi e cosa semplicemente no.
Siamo infelici quando non stiamo facendo ciò che vogliamo fare; abbiamo tanti desideri quando non sappiamo cos’è che davvero desideriamo; non abbiamo scelta quando abbiamo paura di agire; vediamo troppe strade aperte davanti a noi quando non sappiamo dove vogliamo andare.
giovedì 22 novembre 2012
Hic @ nunc
Oggi inizio la mia attività di volontariato per sostenere alcune famiglie che mi erano state presentate - da chi ha domandato il mio aiuto in un settore molto specifico - come economicamente "disastrate".
Poi qualche settimana fa, nel corso della riunione dell'organizzazione che illustrava le necessità particolari famiglia per famiglia, mi sono resa conto che quelle persone definite disastrate si trovano in una situazione economica - almeno per quanto riguarda le entrate - di gran, gran, gran lunga superiore alla mia. Che non è che ci voglia poi tanto. E anche per quanto riguarda le uscite, tenuto conto che godono non solo di agevolazioni comunali (che alla fine spetterebbero anche a me, se solo le richiedessi), ma anche della pietà benpensante del paese, che per sentirsi tutti un po' meno in colpa per le enne proprietà che possiedono - ma lasciano sfitte e fredde fino a portarsele nella tomba - regalano vestiti e scarpe mai indossati ("sai quando ti prende così la voglia di comprare qualcosa e non sai cosa e ti ritrovi con roba che non metteresti mai?", "Veramente no", "Ah, be', vabbè..."), donano cancelleria e giocattoli e raccolgono la colletta alimentare. Insomma, tutto il possibile per permettere loro di mettere qualcosa da parte per il futuro.
Ora, a parte l'invidia - di cui mi vergogno, ma che onestamente provo - nei confronti di questi disastrati "noti", che vengono sostenuti in tutto e per tutto, perché vanno sbandierando i loro problemi, mentre io per "dignità" e vergogna li tengo per me, un altro pensiero viene lentamente a galla e si fa sempre più nitido:
ma se l'essere o meno in una situazione economica disastrata non fosse un dato oggettivo, ma qualcosa di relativo, relativo a come ci si sente dentro?
Perché chiunque, chiunque anche tu che stai leggendo adesso, chiunque a domanda "Ma tu a soldi come stai messo?" risponderebbe "Uh, non me ne parlare. Come sto messo? Tiro a campare!".
Da un anno a questa parte, e cioè da quando tutti, ma veramente tutti, hanno iniziato a confessare apertamente di sentire "la crisi" e a far girare più alta la voce delle difficoltà, dei "sacrifici", dell'impossibilità generale di "arrivare a fine mese", io ho ascoltato - ascoltatrice occasionale di parole al bar, in fila alla coop tra le comari di un paesino, che "non brillano certo in iniziativa" -, e ho raccolto questi commenti; li ho raccolti nella testa e inconsapevolmente elaborati, per poi ritrovarmi a usarli come filtro nell'osservazione dei comportamenti effettivi e delle marchiane discrepanze tra quanto sostenuto a parole e quanto affermato coi fatti.
E la conclusione, gente - anzi, GGGENTE - è che vivete tutti al di sopra delle vostre possibilità. Tutti! Anch'io, che prendo due caffè al bar ogni giorno e non me lo posso permettere, ché in un mese fanno 60 euro e io non ho telefono, adsl, sky, perché non posso spendere quel fisso mensile; e non vado dall'estetista per la ceretta, non mi faccio le unghie, non compro creme, non faccio iniezioni anticellulite, non vado in palestra né dal parrucchiere né in vacanza; ho gli stessi vestiti da dieci anni - alcuni dal liceo: fanno quasi venti anni! -, non compro abiti o scarpe a mio figlio, che veste quelli smessi dal suo amico che, per fortuna, cresce con la velocità della pianta di fagioli, o quelli che gli confeziona mia madre a mano. Eppure spendo 60 euro al mese di caffè del bar.
Allora adesso vi chiedo:
siete davvero così sicuri di stare facendo sacrifici pesantissimi, di essere ridotti all'osso eccetera?
Qualcuno mi starà mandando a cagare, altri proveranno pena, altri ancora penseranno ch'io stia mentendo o, comunque, esagerando. I più coglioni diranno che se tutti facessero come me, l'economia sarebbe già morta, ma io scommetto che la maggior parte sta saltando sulla sedia, in preda a un malessere indefinito, con il pensiero fisso che "io sto facendo del mio meglio, è vero che potrei ancora tagliare, ma non ci si può privare di tutto, sennò che cazzo di vita è?".
E allora è esattamente a voi che mi rivolgo: se le cose che non avete tagliato sono davvero le cose a cui voi più tenete, e vi siete accorti che ancora avete - e fate - le cose a cui più tenete, ma si può sapere perché continuate a lamentarvi e non riuscite a essere felici? Essere felici per ciò che avete ADESSO, e non infelici per quello che temete che forse chissà se andiamo avanti così non avrete tra un mese? Tanto tra un mese finisce il mondo!
Comunque io adesso esco: vado a prendermi un caffè.
lunedì 12 novembre 2012
La Vita è un Viaggio
La vita è un viaggio: dimmi con che mezzo viaggi e ti dirò chi sei.
Tipo piedi: il tipo
leggenda. Sono due le correnti di pensiero sul tipo piedi: una sostiene che
si sia estinto, l’altra che non sia mai esistito. Chissà i futuri passi della
scienza non permetteranno un giorno di far luce su questo mistero.
Tipo auto: il tipo
assertivo. Il tipo auto vive nell’illusione del controllo (“Il passato è
storia, il futuro è mistero ma oggi è un dono e per questo si chiama presente”,
gli ricorderebbe amorevolmente il Maestro Oogway). Crede di avere il potere di
decidere della sua vita, del suo tempo e del suo spazio: pensa di potersi
fermare quando vuole e poi non si ferma finché non è arrivato, vuole godere
della solitudine dell’abitacolo e poi parla – e urla – tra sé e sé, rivolgendo
parole inascoltate allo speaker radiofonico e agli altri automobilisti; dice
“scelgo di spendere un po’ di più, ma ne vale la pena” e poi maledice l’aumento
del pedaggio, le accise, le pompe. Si consola “se devo andarmi a schiantare,
almeno sarà stato solo per colpa mia”, e si ritrova attaccato al guard-rail in
seguito ad un attacco di dissenteria improvvisa dei corvi delle risaie, che
hanno fatto andare uscire di strada un tir, che ha perso il rimorchio carico di
olio extravergine di oliva, che si è rovesciato sulla carreggiata esattamente
davanti alle sue gomme.
Tipo
pullman: è il tipo Gruppo-Vacanze-Piemonte, alias Fantocci, vadi. Non vuole prendersi la responsabilità di condursi
attivamente alla meta e non sopporta la solitudine. Decide dunque di partire
con un gruppo di conoscenti superficiali - e conoscenti superficiali dei
conoscenti superficiali – affrontando coraggiosamente il rischio di tornare a
casa con un set di pentole in terracotta del Mar Morto, pensate appositamente
per la fonduta di ibis azzurro del Titicaca, cacciato con la frombola da un ex
assicuratore inglese, che ha scelto di girare il mondo a piedi scalzi, vivendo
solo del ricavato della vendita delle sue ceramiche tecniche. La frombola
ovviamente è in omaggio. Ritrovo alle 4:00 di un piovoso mattino di novembre,
ritorno a mezzanotte, pranzo a sacco, cena a base di fonduta di ibis azzurro
del lago Titicaca, cucinata a fuoco lento dal rappresentante di pentole/
cacciatore di ibis nelle pentole di terracotta del Mar Morto. E posate di
plastica, quelle nel sacchettino trasparente, col tovagliolo che si straccia
solo con lo sguardo (lo sguardo dell’ibis morente) . Tempo medio per visitare
ciascuno dei quattrocentosettantadue luoghi d’interesse previsti dal volantino:
settantatré secondi ad attrazione.
Tipo
autostop: tipo non pervenuto. Pare
non arrivino mai alla meta, pare non ritornino mai a casa. E comunque sarebbe
il tipo nostalgico.
Tipo
motocicletta A: il sognatore part-time, finto alternativo, sempre alla moda. Vede
la motocicletta come una fuga,
prova un profondo desiderio di libertà, la voglia di uscire dagli schemi, il
contatto con la strada, ma solo se il cima è secco-ma-non-troppo, se il sole è
caldo-ma-non-di-taglio, se l'aria è fresca-ma-non-tesa, se è un mese-senza-la-erre
e possibilmente pari, se si può mettere tutta la tuta di pelle completa con gli
stivali rigorosamente abbinati, se ha pianificato il passo da svalicare da
almeno tre settimane e quattro giorni, verificando che il maggior numero di
altri tipi moto A abbia preso la sua medesima decisione, per organizzare una
sosta finto casuale tutti insieme nei pressi del medesimo punto (possibilmente
l’unico per nulla panoramico, ma da dove chiunque passi possa ammirare la
motocicletta pulitissima, lucida e luccicante, dello stesso colore dalla tuta,
del casco e dello zainetto).
Tipo moto B: l’alternativo
finto-vero, l’orso delle caverne, l’asociale per antonomasia. Odia tutti
gli altri tipi, in particolar modo i tipi moto A. Si sposta sulle due ruote anche per andare dalla mamma
a farsi fare il bucato, ma sempre con l’espressione truce, ché nessuno deve
sapere che va a trovare la mamma. Nessuno deve sapere che ha una mamma. Nessuno
deve sapere che si lava. La moto è sempre visibilmente zozza – passa i pomeriggi
in box a spalmarla di grasso, affinché le polveri sottili vi si appiccichino
meglio – e indossa capi tecnici anche quando va dormire, ma solo spaiati e
dagli abbinamenti di colore assolutamente inguardabili. Grugnisce da sotto il
casco il suo astio per l’umanità, ostenta come una bandiera la sua misantropia
e si accerta costantemente che tutti – ma proprio tutti – si accorgano che lui
si isola, si allontana, sta in disparte, li schifa: “Io sono diverso da te:
guardami!” dice la sua arcata sopraccigliare, mentre con un cenno del capo fa
“Cazzo hai da guardare?”.
Tipo Treno: il tipo treno è
lo sfigato per eccellenza. Soggetto ai tagli dell’economia (in inverno il
riscaldamento non funziona e i finestrini non si chiudono, in estate l’aria
condizionata non va e i finestrini non si aprono); alla repulsione - che coinvolge financo i
corpi sottili - nei confronti del tessuto di rivestimento dei sedili, che è
“antibatterico” solo perché quelle non bene identificate macchie della
copertura “antimacchia” - che per
comodità esce già macchiata da impostazioni di fabbrica -, fa schifo a
qualunque forma di vita, anche le più semplici: monocellulari, parassite e
distruttive); ai malumori degli impiegati dell’intera rete ferroviaria (che
scioperano di regione in regione ogni fine settimana perché gli gira
dannatamente per essere stati messi di turno venerdì sera, sabato e domenica, e
poi scioperano quelli del lunedì, perché “quegli stronzi di ieri non hanno
fatto un cazzo, perché oggi io dovrei lavorare?”); al divieto di fare pipì
durante la sosta in stazione nonostante lo sappiano tutti, che la pipì scappa proprio durante la sosta
in stazione; all’alitosi del tizio strambo che gli si mette accanto,
all’abitudine di certi stranieri di levarsi le scarpe, a quelli che si portano
il chihuahua nella tasca dell’impermeabile (o sono solo felici di vederti).
- Va bene, ma il valium per il decollo lo voglio lo
stesso.
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