domenica 25 marzo 2012

Fiaba


La stanza era gremita come sempre, gli animi già caldi: centinaia di occhi brillavano d’impazienza, in quegli istanti di attesa che precedevano il suo ingresso in scena.

Clara lo sapeva anche senza guardare, un po’ per esperienza e un po’ perché l’eccitazione degli spettatori era densa e palpabile, così tanto che nell’aria la si poteva quasi vedere: era come  quando si aprono le finestre di una stanza riscaldata, mentre fuori l’aria è sottozero; o l’effetto dell’asfalto bollente che trema in lontananza, miraggio nero di catrame sotto il sole d’agosto.

Il discorso che stava per tenere davanti a quei visi affamati e folli era ormai lo stesso da tempo e negli anni aveva raggiunto la perfezione: semplice, logico, consequenziale, prendeva per mano chi lo ascoltava per condurlo naturalmente verso quella che alla fine diventava chiaro a tutti, che fosse l’unica conclusione possibile.

Ma non era sempre stato così facile: Clara si ricordava ancora bene le prime volte, quando si era trovata a doversi scontrare dapprima con l’indifferenza, poi la con la diffidenza, fino ad arrivare ad un momento in cui la gente aveva addirittura avuto paura di lei. Ed era stato proprio quello, il momento in cui aveva capito che, forse, le sue parole stavano muovendo qualcosa; l’attimo fragile in cui le sue idee stavano gettando semi nei cuori della gente intorno, semi che avrebbero potuto germogliare e fiorire, se solo lei fossi riuscita farli sentire tutti al sicuro.
Perché Clara sapeva, che una sola persona può cambiare il mondo: da Gesù Cristo a Giulio Cesare, da Gandhi a Harvey Milk, da Carlo Magno a Bill Gates, in un susseguirsi di nomi e cognomi di persone giuste, al momento giusto. E poteva esserlo anche lei, perché era il momento giusto e la gente se la meritava, infine, una via d’uscita verso la libertà quella vera, quella che li avrebbe resi finalmente tutti indipendenti, autonomi e responsabili: uomini e donne consapevoli e felici.

La parola “crisi” non manca un discorso ormai da diversi anni: ce la portiamo dietro da tempo (o forse è lei, che si trascina dietro noi), come l’inopportuna compagna di viaggio che nessuno ha invitato, ma che si è presentata lì sul pullman con le valigie già pronte ed è partita con noi. Non aveva neppure il biglietto, a pensarci bene, eppure nessuno ha pensato di controllare: ce la siamo trovata seduta accanto e abbiamo cominciato ad andare, infastiditi, ma dando la sua presenza per inevitabile. Insomma, una clandestina dichiarata che nessuno voleva, ma che tutti abbiamo lasciato salire e così, rosi dal senso di colpa, abbiamo scelto la via più facile:  attribuirle la responsabilità unica ed incontestata di ogni situazione storta.

(Breve parentesi su una questione che mi fa ridere di gusto: grazie alla parola crisi siamo diventati amici anche del termine “spread”, che fino a poco tempo fa, correggetemi se sbaglio, nessuno di noi aveva mai neppure sentito nominare. E invece ad oggi ne siamo diventati conoscitori tanto esperti, che oltre ad essere il primo ragguaglio che chiediamo ai notiziari appena svegli, prima ancora di dare il buongiorno alla persona cara, riusciamo abilmente ad infilarlo in ogni frase: al bar, in ufficio, durante il Cenone e persino dalla parrucchiera. Un po’ come sto facendo io adesso)
.
E parliamo di fantastiglioni di paperdollari di debito pubblico (che se è pubblico è anche mio, nonostante io tutti questi soldi non li abbia mai visti), cui imputiamo in coppia con “crisi” tutti i nostri problemi, da cui ci sentiamo ormai così schiacciati e oppressi, che un po’ per il peso in sé, un po’ per risparmiare, ci siamo ridotti a vivere in 2D.

E quando arriva l’inverno, poi,  come accade ogni anno, una volta l’anno? Da quando abbiamo la crisi (e lo spread) sul nostro autobus, pare ci occorrano colpevoli persino per eventi prevedibili come le stagioni, da cui ci lasciamo cogliere del tutto impreparati: i trasporti si fermano un po’ di più, vetusti cumuli di lamiere bloccati in bozzi di ghiaccio; la neve sconfigge la nostra quotidianità, ormai affidata a ritmi innaturali di cui ogni variazione climatica ci sbatte in faccia l’artificiosità; il freddo uccide un sempre crescente numero di persone che non hanno una casa o di persone che una casa ce l’hanno, ma è una che non le ripara dalla morsa del gelo, perché  i trasporti bloccati, i ritmi mandati all’aria e l’economia che non gira non portano più energia o gas o entrambi.

In questa situazione di ordinario maltempo, abitudinario malessere, solita rassegnazione e sterile indignazione, ricordo quando giunse voce di una signora, che da qualche parte aveva aperto il suo albergo di trenta camere ai senzatetto, affinché questi trascorressero al riparo il tempo necessario a che il gelo passasse (almeno fino al prossimo, ennesimo, ciclico e prevedibile inverno) e la cosa aveva fatto notizia e scalpore.
Fate cenno di sì, la ricordate anche voi: praticamente questa signora è diventata famosa. Ma vi siete chiesti  perché questa signora è diventata famosa? Vi siete risposti che è  perché ha compiuto un gesto altruistico, perché ha verosimilmente contribuito a salvare delle vite, ma non è così. La spiegazione è meno immediata e molto più triste: questa signora è diventata famosa perché è UNA. Una persona, che ha risolto momentaneamente a trenta persone il problema della dimora. Fanno trentuno persone in tutto, coinvolte direttamente in questa faccenda. Trentuno. Quanti siamo nel nostro Paese? Quanti in Europa? E nel cosiddetto mondo civilizzato?

“Tutti dovrebbero avere una casa, cibo a sufficienza, abiti adeguati, la possibilità di scaldarsi quando fa freddo”. Quante volte l’avete sentito, detto o pensato?
Per la strada si raccolgono interviste a uomini e donne con lo sguardo contrito, che si dicono partecipi della sofferenza di chi sta peggio; interviste a uomini e donne con i volti rassegnati, buttati a terra sotto i portici della capitale come foglie secche, indurite dal vento e dal sole; interviste a giovani arrabbiati, che con i loro cartelli ed i loro canti vorrebbero salvare il mondo, ridistribuendo la ricchezza all’interno di questa società. E dibattiti: dibattiti in televisione, dibattiti online, dibattiti in radio per decidere chi ha la colpa e chi può aiutarci ad uscire da questo pantano economico, con quali tagli, quali investimenti, quali tasse, quali agevolazioni. All’interno di questo sistema, dove nulla pare funzionare, dove c’è sempre chi resta indietro, dove nessuno riesce ad annullare l’ingiustizia. Perché questo sistema all’interno è sbagliato.

E se allora tutti, da subito, insieme, adesso, provassimo a uscire, da questo sistema? Se tutti vedessimo che non siamo in una gabbia senza via d’uscita, ma che siamo in una gabbia che è aperta su di un lato e che andarcene sta solo a noi, che siamo padroni di uscirne, anche se molti non riescono ancora a scorgere quello che c’è all’esterno? Perché avere paura di uscire nell’ignoto, se tanto dentro non stiamo bene?

Tutti dovrebbero avere una casa, cibo a sufficienza, abiti adeguati, la possibilità di scaldarsi quando fa freddo, vero? Tu sei d’accordo? E tu? Lei, laggiù, signora? E tu lì dietro? Dite tutti sì.
Ma non lo pensate davvero. Nessuno lo pensa davvero, neppure quelli che una casa non ce l’hanno, quelli che sono senza cibo, senza abiti adeguati.
No, non lo crediamo davvero, perché se ci credessimo, se ne fossimo intimamente convinti, se non ci fossimo lasciati lavare via la consapevolezza dei nostri diritti da un sistema economico basato sul debito e quindi sulla povertà, sull’infelicità, su un denaro che è solo carta straccia, se lo credessimo tanto da non doverci nemmeno porre il problema se sia o meno un diritto, non ci sarebbero persone che ne sarebbero state private. E non ci sarebbe crisi, né spread, né debito, né economia, né denaro.

Perché se abitare è un diritto, non c’è affitto: non c’è l’idea di guadagnare con un’abitazione, perché è mio diritto averla, è tuo diritto averla, è suo diritto, è loro diritto. Perché è diritto di tutti.

Perché se mangiare è diritto, non c’è spesa: non c’è l’idea di dover guadagnare per consentire al prossimo di sfamarsi, perché nutrirsi è suo diritto. Tuo diritto, mio, loro.

Perché se l’abito è un diritto, non c’è l’idea di guadagnare per vestire me, te, lui, lei, loro.

Perché se l’energia è un diritto.

Perché se l’istruzione è un diritto.

Perché se l’intrattenimento è un diritto.

Perché se la salute è diritto.

Perché se la vita è un diritto.

Se la vita è un diritto, quale che sia il ruolo che  ognuno di noi decide di assumere nella società – se adoperarsi per creare abitazioni, nutrire, fornire abiti, energia, diffondere istruzione, occuparsi della salute, intrattenere -, non abbiamo poi bisogno di nessuna moneta sonante, né di nessun di pezzo di carta frusciante, per avere accesso a tutto quanto ci spetta - un’abitazione, cibo, vestiti, energia, istruzione, salute, intrattenimento-: ce lo garantiamo naturalmente a vicenda,  senza pensare che sia uno scambio, senza baratti e senza invidia.
Solo perché è un diritto”.

La platea era incontenibile, le ovazioni incommensurabili, gli applausi scroscianti. La voce di Clara aveva gridato le ultime parole, in un crescendo di emozione e decibel, come ogni volta, ogni volta che era per lei come se fosse la prima, perché non c’era affettazione: solo convinzione, coinvolgimento e speranza. E tanto amore.
Per questo la folla l’acclamava sempre, per questo era accolta sempre col medesimo calore e per questo riusciva a toccare i cuori di tutti quelli che l’ascoltavano. E che nascevano a nuova vita. E che si sarebbero precipitati fuori, per condividere quella nuova luce che risplendeva dentro ognuno, una luce di libertà e liberazione.

Ma come ogni volta, arrivavano implacabili gli infermieri con le loro siringhe piene di chimica: distruttrici di volontà ed entusiasmo, disruttrici del sentire e della consapevolezza, distruttrici del pensiero libero, obliteratrici del diverso.

Le concedevano di parlare una volta la settimana –una volta ogni quindici giorni, quando capitava che qualcuno non si fosse comportato a modo. Era il premio della domenica, come il gelato: una fiaba della buonanotte che agitava gli animi, ma che tutto sommato non faceva molti danni, se sedati per tempo.

Ma nonostante gli anni trascorsi da reclusa, gli anni di chimica e repressione, nonostante l’alienamento e l’oblio, Clara se la ricordava ancora quella volta: la volta in cui avrebbe potuto, l’attimo fragile in cui le sue idee stavano gettando semi nei cuori della gente intorno, semi che avrebbero potuto germogliare e fiorire. Perché Clara non era la sola a saperlo, che una persona può cambiare il mondo: lo sapevano anche quelli che il mondo non volevano che potesse cambiare mai; quelli che tenevano sotto controllo le persone giuste, per evitare che rischiassero di arrivare al momento giusto. Quelli l’avevano rinchiusa lì, per obliterare il diverso.

martedì 13 marzo 2012

Il bene della famiglia

Io ho fatto di tutto per tenere le cose in piedi e la famiglia unita: i sacrifici, che ho fatto, li so solo io.
Ve l’ho già raccontato un milione di volte almeno, no? Un milione o giù di lì. Lui non doveva fare niente,  mai niente; mi occupavo di tutto io e lui non doveva nemmeno pensare: io prendevo tutte le decisioni per la coppia e per il bambino, io stabilivo i ritmi, io soddisfacevo i gusti di tutti – che coincidevano sempre, perché siamo una famiglia - io mi preoccupavo di scandire le ore di veglia e sonno, distribuivo doveri e piaceri; io mantenevo i rapporti sociali, io gestivo l’immagine della famiglia sulla base di quello che ritenevo più opportuno per tutti quanti, sulla base di quello che gli altri volevano vedere. Io amministravo persino il denaro: a lui non restava che il compito di portarlo a casa. Il compito di guadagnarne quanto io stabilivo che ci servisse. E farlo attraverso un impiego che gli desse un tono, che corrispondesse a quell’immagine di noi che avevo deciso. Per noi.

Lui invece non c’era mai: era sempre assente per lavoro, anche durante quella manciata di ore che trascorreva a casa. Sembrava che il lavoro fosse più importante di noi ed io questa cosa non l’ho mai capita. Al mattino usciva all’alba e prendeva il caffè in autogrill: non voleva nemmeno fare colazione con me, solo perché l’aspettavano due ore di traffico. Cosa gli costava, cinque minuti per un po’ di latte e biscotti? Avrebbe potuto essere il momento giusto per metterlo al corrente dei progetti che avevo fatto per la nostra vita, dei passi che avevo iniziato a fare per far sì che quei progetti prendessero piede. La sera non cenava mai con noi, perché c’era sempre una riunione, una presentazione, una videoconferenza. E poi non so come facevo a sopportare tutto, ma c’era questo traffico anche al rientro, per cui magari usciva dall’ufficio alle nove, dieci di sera, ma non tornava prima delle undici: vi rendete conto di come passavo le giornate? Tutto sulle mie spalle. Alla fine, quando rientrava ero distrutta. Eppure aspettavo sveglia, per parlargli di quei corsi cui avevo iscritto il piccolo, che tutte le mie amiche ci mandavano i figli e noi non potevamo certo essere da meno; oppure mostrargli le brochures delle vacanze che avevo prenotato (che tanto lui avrebbe trascorso il tempo al computer a fare cose per i colleghi). Non si accorgeva neppure dei miei vestiti nuovi, delle scarpe; non vedeva i risultati dei massaggi, che avevo un corpo da fare invidia, e non capiva mai qual era il giorno della settimana in cui andavo dal parrucchiere. E dopo tutto questo, voleva anche fare l’amore. Ma io mi rifiutavo sempre, perché era fin troppo evidente che non mi rispettasse.

Distaccato, insensibile, apatico, pessimista, distruttivo, noioso.

E poi c’è stata la depressione. Come se non bastasse già il resto. Come fa uno che non deve pensare a nulla, della sua vita, a farsi venire la depressione? Ma io lo so, che era solo un modo per attirare ulteriormente l’attenzione su di sé. E l’ennesimo peso sulle mie spalle: gliel’ho trovato io, il medico, ve l’ho già detto? Abbiamo discusso insieme la cura, io e lo psichiatra. Abbiamo visto insieme quello che sarebbe stato meglio per lui, il dottore ed io.

Finché quell’ingrato, insensibile, egoista, irrispettoso, ha deciso di lasciare: mollare, cedere, abbandonare tutto quello che avevo costruito. Debole, vigliacco, che da solo non avrebbe saputo neppure abbinare la camicia alle calze, perché non aveva mai deciso cosa indossare in vita sua, perché i vestiti glieli avevo sempre scelti io. E non sarebbe nemmeno stato in grado di nutrirsi, sapete? Perché la spesa la facevo io e io sceglievo cosa mangiare e io preparavo i menù e le porzioni.

Quando se n’è andato sapevo che non faceva sul serio: sapevo che sarebbe durato poco, perché era solo il capriccio di una crisi di mezza età. Ho provato a spiegargli numerose volte che andarsene non era ciò che voleva; ho provato a fargli capire che le sensazioni che provava erano fasulle e comunque sbagliate; ho cercato di mostrargli i suoi veri pensieri, perché quelli che esponeva lui, parola mia, erano talmente ridicoli e così lontani dall’immagine che avevo costruito nel tempo, pezzo dopo pezzo, un tassello dopo l’altro.

Ma ho sempre avuto un ascendente forte, su di lui: conoscevo le sue debolezze e le sue paure e avevo lavorato di cesello perché non si smussassero col tempo e, anzi, affinché prendessero la forma che desideravo io, quella che più mi tornava utile per manipolarlo a mio piacere. Quanti sensi di colpa, che sono stata in grado di fargli venire; quante volte deve essersi pentito di quello che si è permesso di fare; quante volte gliel’avrò fatto capire che è mio. Tutto mio. Perché nessuno può volermi lasciare e nessuno può lasciarmi.

Era mio: io l’avevo costruito e lui non aveva il diritto di voler vivere lontano da me. Non aveva il diritto di essere diverso da come l’avevo disegnato, non aveva il diritto di essere felice, non aveva il diritto di essere: l’avevo creato perché non lo volesse nessun’altra, perché non si volesse neppure da solo.

Sarebbe tornato, se non fosse stato per quella puttana che si è messa in mezzo. Anche se non sopportavo quello che era diventato, anche se non potevo guardarlo negli occhi senza vomitare, anche se detestavo tutto quello che faceva, anche se mi veniva voglia di picchiarlo forte quando sentivo la sua voce, doveva tornare. Era andato via da due anni, ormai era tempo: non potevo più sopportare quell’immagine di fallimento, che essere una donna separata trasmetteva a tutti i miei conoscenti.

Io l’avevo plasmato affinché non piacesse a nessuno, neppure a se stesso. Ha avuto solo quello che si meritava, quella puttana rovina-famiglie.

Per fortuna con il mio bambino è diverso: lui sarà perfetto.

Ho qui una sua foto: vuole vederla,Vostro Onore?