lunedì 27 febbraio 2012

(un po’) Sul Giornalismo (si potrebbe dire) Parte Terza


Da piccola volevo fare la principessa, ma i miei genitori dicevano che non avrei mai potuto esserlo, perché principessa si nasce ed io non lo nacqui.
L’idea di diventare una principessa per contratto matrimoniale, come Cenerentola, non ha mai preso piede: sarà che quando ero bambina io, i principi erano Carlo e direi basta, dato che di quelli giovani non andava ancora di moda parlarne e alcuni dovevano ancora nascere.

Così da un po’ meno piccola volevo fare l’artista di circo: trapezista, per la precisione. Ma i miei genitori dicevano che non avrei mai potuto esserlo, perché artisti di circo si nasce ed io non lo nacqui.
Il pensiero di frequentare una scuola non mi ha mai sfiorato, per il semplice fatto che nessuno mi aveva mai detto che esistessero delle scuole apposta.

Poi da non proprio più piccolissima volevo fare l’eroina coi superpoteri, ma i miei genitori dicevano che non avrei mai potuto esserlo, perché coi superpoteri si nasce ed io, non lo nacqui.
A cercare un ragno radioattivo, un meteorite, un costume alieno e della polvere di fata ci ho anche provato, ma che posso dire: se l’erano già presi tutti Peter Parker, I Fantastici 4, Ralph Super Maxi Eroe e quell’altro che non vuole mai diventare grande.

E così, in un crescendo di strade impraticabili, di sogni stroncati sul nascere al primo impatto con la dura realtà delle cose, al culmine delle mie illusioni giovanili, da adolescente volevo fare l’insegnante. Ma insegnanti si nasce fuori dall’Italia, ed io…

(Poi i genitori hanno il coraggio di muovere obiezioni, quando lo psicanalista dei figli arriva alla solita conclusione: che tutti i problemi che gli eredi hanno, glieli hanno causati loro).

Ad ogni modo, non volevo parlarvi di quelle che sono state le mie aspirazioni di bambina, bensì sottolineare quelle che non lo sono state: non ho mai desiderato diventare un’astronauta - nonostante il mio nome avesse dei notevoli predecessori nel settore - né la ballerina, né la cantante (questo credo solo per non sentirmi dire  che con la bella voce ci si nasce ed essere così costretta ad ammettere che io, purtroppo, eccetera), né la giornalista. Il che è strano, perché nel mio immaginario la giornalista rientrava nella categoria eroina con superpoteri: una donna coraggiosa che smascherava i cattivi e proteggeva gli indifesi, che s’immergeva nelle situazioni più pericolose, guidata dal sacro fuoco della giustizia e della verità.

Così alla fine i miei studi e le mie esperienze sia lavorative, che di svago, li ho condotti intorno a quel nucleo centrale, che è una delle esigenze fondamentali dell’essere umano: la comunicazione. Sì, in altre lingue e attraverso lo studio di altre culture, ma questo non è una divagazione dal tema centrale, bensì un valore aggiunto, un’estensione di questo fulcro, di quel bisogno comune che è comunicare agli altri la nostra esistenza, per poter dire a più persone possibili “ci sono anch’io, guardami!”.
Ho sostenuto gli altri nei loro piccoli momenti di consolazione ed autogratificazione (sono stata commessa in gelateria); ho ascoltato individui, abituati solo ad essere sentiti (ho lavorato come assistente turistica); ho aiutato persone a vedere, persone che prima guardavano soltanto (sono stata insegnante); ho contribuito a far respirare gente, che fino a poco prima si limitava a boccheggiare (sono stata scrittrice). Finché non ho più avuto la possibilità di essere nulla.
Per molto tempo (sono disoccupata).

Solo allora è successo che qualcuno mi invitasse a considerare l’idea che, forse, quell’eroina portatrice di verità e buon esempio, che combatteva i nemici con la penna, come nel più tradizionale dei detti popolari, be’ forse quell’eroina avrei potuto essere io. Così, di punto in bianco:
“vuoi provare a fare la giornalista?”.

Non mi è bastato il fortissimo senso di disagio che ho provato nel momento in cui mi è stata fatta questa proposta, per capire quel semplice fatto: non fa per me. O meglio, non me lo sono fatta bastare apposta, il fortissimo senso di disagio che ho provato nel momento in cui mi è stata fatta questa proposta, per capire quel semplicissimo fatto: non fa per me.
Credo che sia stato il ricordo della vocina dei miei genitori, il loro “non puoi fare questo, perché…” di quando ero piccola, che mi precludeva l’accesso ai miei sogni più splendenti, che si sia fatto sentire in quel momento, portandomi per reazione ad ignorare quel fortissimo senso di disagio e quel semplicissimo fatto. Oppure l’eco di quella stessa vocina, che mano a mano che crescevo era diventata “non puoi non fare questo, perché…”.

(Perché poi da una parte di dicono che non puoi fare, mentre dall’altra ti dicono che non puoi rinunciare. Dopodiché si offendono, quando lo psicanalista dice che tutto è nato da loro).

Così mi sono buttata alla ricerca dei nemici della verità e della giustizia, con la mia potentissima arma sferografica nella borsetta.

E quale luogo migliore per incontrarne, se non un pubblico ufficio? Gli uffici pubblici sono notoriamente covo dei cattivi della peggior specie: i cattivi cattivissimi, pronti a gettarsi sulle povere vittime, aggirandole con l’astuzia e finendole con la malvagità, senza pietà. Peggio degli uffici pubblici, ci sono solo il Gatto e la Volpe.
Quante volte siete stati vittime di code infinite all’ufficio postale, di attese sfiancanti alle asl, di ore interminabili all’Inps? Troppe. Le segnalazioni di abusi sono così numerose, che anche un’eroina alle prime armi come me, con quel senso di disagio che non se ne va, può trovare il suo anti-eroe da affrontare.

E avevo visto giusto, perché in quel piccolo nuovissimo ufficio di paese sembrava che nulla funzionasse: le porte dei diversi specialisti erano state costruite in modo tale che  gli utenti in attesa del proprio turno, ma per servizi diversi, si ammassassero gli un sugli altri in un limbo indistinto; il display luminoso, che avrebbe dovuto avvisare che finalmente tocca a te, sì proprio a te, laggiù, numero 75! non funzionava, né esisteva altoparlante, per supplire a questo malfunzionamento; per i pagamenti elettronici mancavano i collegamenti: solo contanti; gli orari non erano segnalati; nessuno conosceva i numeri di telefono del centralino o degli interni (neppure i dipendenti) e non c’erano ingressi che davvero soddisfacessero i criteri per i portatori di handicap. Ho anche cercato un cestino - un gettacarte, una sputacchiera - ma invano.
Insomma, uno sfacelo: tutti i mali del Paese sembravano essersi dati appuntamento lì. Lì dove c’erano anche loro, le vittime: i poveri indifesi, costretti a sottostare, inermi, alle ingiurie di quei cattivi cattivissimi. Parlavano, gridavano, si lamentavano, così frustrati e impotenti, che mi aspettavo di vederlo arrivare da un momento all’altro, quel Caron dimonio, con occhi di bragia, a batter col remo qualunque s’adagia.
E tutti avevano qualcosa da dire, tutti cercavano i miei occhi per poter condividere il proprio disappunto, la propria indignazione: ognuno con una storia da raccontare, ciascuno desideroso di un sostegno, di un riconoscimento.
E allora ho sfoderato la mia arma, la mia penna al servizio della giustizia, per cominciare a dare voce agli inermi, per dare anche a loro la possibilità di urlare al mondo intero il proprio io non ci sto.

“Sono una giornalista” mi usciva con fatica e mi sentivo decisamente di più Julia Roberts, che Erin Brockovich, ma sono sempre stata brava, a recitare e quella frase davvero sortiva un effetto, seppur pronunciata con latente disagio: come se anziché annunciare una professione, io avessi detto per il potere di Grayskull! o cristallo di luna, vieni a me!

Sortiva un effetto, quella frase, ma non era esattamente quello che mi sarei aspettata: passi che non era quello che da bambina immaginavo avrebbero avuto i miei indifesi, nel vedermi arrivare volando, pronta a liberarli dal mostro che li opprimeva, ma non era neppure quello che mi ero immaginata nell’uscire di casa mezz’ora prima, perché magari non avrei fatto il mio ingresso volando, ma sicuramente sarei stata lì per liberarli dal mostro che li opprimeva! L’unico effetto che la mia arma luccicante pareva avere, era quello di un cerotto: un bavaglio, un ddl sulle intercettazioni, un post-it sulle bocche dei miei inermi. Silenzio improvviso. Un silenzio assordante, un ossimoro da manuale. Quel “sono una giornalista” non aveva funzionato solo come la manopola del volume di uno stereo: aveva direttamente spento l’interruttore della percezione  dell’ingiustizia subìta. Insomma, di colpo i miei oppressi non si sentivano più oppressi.

-Ma tutta questa confusione, non dicevate che era lesiva della privacy?
-No, anzi: stiamo tutti insieme così passiamo il tempo.
-Ma lamentavate che non si sentiva nulla, che così si rischia di perdere il turno.
-No, no: basta tendere l’orecchio.
-Ma i lunghissimi tempi di attesa, Lei è qui da tre ore, raccontava.
-Eh, ma bisogna capire: ci sono pochi sportelli.

Sono ritornata in quell’ufficio nuovo per una settimana e per una settimana ho preso parte alla medesima pantomima: stessa bolgia, stesse urla, stessi silenzi. Una settimana. Finché non mi sono stancata.

“Innocenti e vicoli bui: ma non imparano mai?”, recitava una scena di un telefilm che non ricordo. No, non imparano mai: gli innocenti s’infilano nei vicoli bui perché scelgono di essere innocenti e si lasciano cadere volontariamente in situazioni pericolose, al solo scopo di potersi poi lamentare; per scaricare sempre su altri colpe che sono solo loro. Perché è più facile: è più facile lamentarsi, farsi compatire, piuttosto che sforzarsi di evitare i pericoli o adoperarsi per metterci una luce, nel vicolo buio.

E ho rivalutato Metroman, l’eroe che si prende bonariamente gioco del “cittadino qualunque” perché lo sa, che il cittadino qualunque non imparerà mai a salvarsi da solo; l’eroe che finge di morire, perché è stanco che gli altri si aspettino da lui che risolva tutti i loro problemi, mentre loro non fanno che guardare e gridare.

E mi convinco sempre di più, che nella lotta tra gli uomini di X e gli altri, alla fine quello che ha davvero ragione, è solo Magneto.

domenica 12 febbraio 2012

Obiezione

- E questa per Lei è una buona ragione per abortire?

- Sì.

- Ma questa è solo la Sua visione delle cose, non è un dato oggettivo e, quindi, non può essere una sentenza. Io, per esempio, vedo la cosa in un modo diametralmente opposto da Lei.

- E chi se ne frega? Scusi, Dottore, ma che Lei abbia studiato uteri per  dieci anni, non cambia il fatto che quella cosa che ha tra le gambe sia un pene e che tra i due, qui, quella incinta sia io. Ma  poi quale “dato oggettivo”, quale “sentenza”? Il mio dato oggettivo è il mio dato soggettivo: l’unica oggettività valida per me è la mia soggettività, così come il Suo “diametralmente opposto” punto di vista, è per l’appunto solo il Suo soggettivo punto di vista.
Quel poster che lei ha appeso lì, magari con noncuranza, magari solo per rendere più colorate queste deprimenti e squallide pareti bianche (ma mi tolga una curiosità: perché gli ambulatori sono tutti uguali? Pareti di cartongesso bianche, controsoffitto in polistirolo bianco, infissi di alluminio, ma con il muro attorno tutto scrostato, macchie di umido o di perdite anche quando una struttura è nuova, luci al neon; il cardiologo affigge cuori infartuati e coronarie che non ne possono più, l’oculista bulbi con la cataratta – come se i bulbi oculari non fossero già schifosi quando sono sani -, la pediatra mette bambini grassi contro bambini magri e i ginecologi ci innaffiano di spermatozoi. In senso figurato)…
Quel poster, dicevo, ogni volta che lo guardo mi irrita sempre di più: una sezione del profilo del tronco di una donna, con l’interno a vista e tutte le varie fasi di questo corpo estraneo che s’impianta e cresce, cresce, cresce. I miei organi si spostano: la colonna vertebrale si inarca così tanto, che sembra prendere la forma di un punto interrogativo per chiederti “ma perché lasci che mi accada questo?”; gli organi interni si spostano, perché non c’è abbastanza spazio per tutti (i miei organi interni si devono spostare perché nel mio corpo non c’è più spazio per loro!); il cuore si affatica, i reni si affaticano, la pelle non basta più e si strappa, i seni fanno male, le caviglie si gonfiano, il culo ingigantisce e cade, le cosce sembrano impasto crudo per la pizza; non posso più dormire nella posizione che voglio, mi vengono le emorroidi, mi viene la sciatica, percepisco decuplicati i peggio odori che il mondo produce.
E intanto dentro ho quella cosa. Quella cosa che mi divora, che mi sposta la colonna vertebrale, che gioca alle tre carte coi miei organi, che mi dà da smaltire i suoi scarti e che si prende il mio cibo, il mio sonno, la mia energia e cresce e più cresce, più sposta, più scarta, più prende. Un parassita. È un parassita e mi viene voglia di scalzarlo via, prima che si prenda tutta la mia vita.

- Ma su, adesso, non esageriamo: un parassita! La tenia è un parassita! Io l’ho avuta la tenia.

- L’ha avuta, bene. E l’ha tolta o ha lasciato che Le s’impiantasse nella pancia, Le rilasciasse dentro i suoi scarti, si nutrisse del Suo cibo, delle Sue energie? Perché la tenia quando entra è un cosino piccolo piccolo, un ovetto tenero, che deve ancora diventare grande e, ha bisogno di usarLa come incubatrice, per crescere fino a che dentro non ci sta più. Un grosso pitone di otto metri. Le ha permesso di diventare quel grande e forte grosso pitone di otto metri o ha fatto di tutto per liberare il Suo corpo da quell’intrusione prima che accadesse?

- Io non capisco più di cosa stia parlano. Lei sta mettendo sullo stesso piano un bambino e un essere la cui presenza può causare complicanze così gravi, in un organismo umano, che lo può uccidere.

- Definizione migliore della Sua, non avrei saputo darla.
Diabete, gestosi e sa dio quante e quali altre complicanze, si porta dietro una gravidanza. Anzi senza scomodare dio, c’è già Lei che lo sa.
Per non parlare del parto: atto finale di un corpo che non ne può più e finalmente si ribella all’invasore, con uno sforzo sovrumano per espellerlo e liberarsi di quella cosa, diventata ormai ingestibile. La fatica, le cose impensabili che riesce a fare per spremerlo fuori dalla stessa porta da cui era entrato, ma tre chili e cinquanta centimetri prima. E poi scrivete trattati, studi, scenette comiche su come le donne diventino intrattabili, durante il travaglio: ma quanto devono essere incazzate, quelle donne? Io sono furente già adesso, non voglio neanche pensare alla rabbia che potrei accumulare in nove mesi.
Se sopravvivessi a tutto, ovviamente: flebo perché le spinte non sono sufficienti, lacerazioni, anestesia, tagli, emorragie, infezioni.
E poi non è mica finita qui. Perché quel piccolo parassita continua a divorarti anche quando è fuori: succhia il mio cibo, si nutre della mia energia, si prende il mio sonno, mi dà i suoi scarti da smaltire; si prende il mio tempo libero, il mio lavoro, i miei pensieri, i miei sogni, i miei genitori, il mio uomo: si prende la mia vita.

- Io sono certo che Lei sarà un’ottima madre.

- io sono certa che Lei è un coglione.

martedì 7 febbraio 2012

Sul giornalismo (parte seconda)

Una notizia è qualcosa che fa vendere il giornale. Né più, né meno.
Può essere un’informazione di servizio, di quelle che dicono al lettore cosa funziona e cosa no, che denunciano i disservizi, che mettono in guardia i cittadini; può essere un fatto di cronaca, ma uno morboso, scabroso, meglio se ha come protagonista un personaggio noto o uno con cui il pubblico si possa identificare per negazione, che susciti le emozioni più profonde di indignazione: i rancorosi anatemi contro il mostro, il consolatorio pietismo (quello ben mascherato dalla più nobile compassione) e il più becero moralismo di bassa lega, quello che ci fa sentire migliori degli altri e che ci regala l’alibi per giudicare tutto e tutti, tranne noi stessi. Oppure può essere la gloria. Meglio se promessa, intravista, ma non ancora agguantata: quella che soddisfa la nostra brama di quindici minuti di notorietà, mostrandoci il figlio della ragazza acqua e sapone della porta accanto (perché la ragazza della porta accanto da sola, non basta più), che quasi quasi ce l’ha fatta.

Alle poste: di quattro sportelli, ne funziona solo uno, causando code chilometriche? Ottima notizia: se mi è andata storta la giornata, questa mi fornisce un colpevole con cui prendermela. Anche se in posta non ci sono andata, perché tanto “in questo paese funziona tutto così: male”.

La gente parte per le vacanze e abbandona il cane in autostrada? Roba da almeno un editoriale, per non mancare di dare l’occasione di scuotere la testa, in segno di disprezzo verso esseri umani tanto biechi e tanto diversi da noi, che invece siamo gente per bene.

Il padre che dimentica la neonata in auto, poi, è una signora notizia: Una notizia così ci permette di trovare un metro di paragone, che ci fa sentire migliori per settimane intere. “Ma come si fa, ad essere così?”, “Non avrebbe mai dovuto avere figli”, “Dovevano dimenticarci lui, dentro la macchina”, “Uno così, non merita di vivere,”.
Sì, davvero molto migliori.

(Non scuotete la testa, come state facendo adesso: la metà di voi, che sta spianando la strada ad un improvviso attacco di cervicale acuta con un convinto cenno di sì, non è diversa dall’altra metà, quella che sta svitando Atlante, agitandosi in un secco no. Entrambi i movimenti in cui avete impegnato il vostro capo in questo momento nascono dallo stesso principio, che è sotteso all’identificazione per negazione di cui sopra: chi dice sì, ha messo a fuoco il meccanismo, ma lo sta attribuendo esclusivamente agli altri, pensando di esserne immune, pensando “uh se ne conosco, di gente che fa così” e sottintendendo “io sono diverso, sono migliore”; chi dice no, invece, pensa “non è vero, non è vero che reagiamo così”, ma in realtà l’ha individuato anche lui, il meccanismo, e non vuole ammettere con se stesso di aver riconosciuto quell’atteggiamento come proprio).


Non c’è amore, con la A maiuscola, né compassione, quella etimologica: non c’è tempo, non c’è spazio per queste cose nel corso della giornata, mentre diamo una svelta scorsa al quotidiano sorseggiando veloci il caffè, mentre navighiamo col telefonino sulle ultime notizie in coda verso l’ufficio (o a casa mentre cerchiamo annunci di lavori improbabili), né tantomeno davanti al telegiornale la sera, stanchi, mentre l’unico desiderio che abbiamo è quello di annullarci.

“Questo è ciò che fa vendere. È la natura umana”, mi dicono quando chiedo perché dobbiamo sottostare a queste regole: perché debba essere tutto una questione di vendere e comprare, innanzi tutto? E poi perché dobbiamo dare al lettore notizie che provocano queste reazioni, che non gli permettono di svincolarsi da queste catene di sentimenti bassi, dal voyerismo morboso, dalla curiosità della morte violenta vista da lontano e che risulta, quindi, asettica?
Perché non è notizia di servizio, avvisare se un chiodo sporge pericolosamente da un muro prima, prima che un bambino ci lasci un occhio? Perché la moglie violentata dal marito, sì, mentre la donna sostenuta dal proprio compagno a muovere i primi passi in un’attività autonoma e creativa, che le permetta di realizzarsi oltre alla famiglia e ai figli, no? Perché gli immigrati ammazzati a colpi di spranghe valgono la pubblicazione, mentre la bambina orfana del Burundi, che è stata presa in affido da ben due famiglie locali non lo è?

“È la natura umana: la gente vuole sentire questo”, mi dicono. Be’, sapete cosa c’è? Che la gente sono io e a me non piace sentire questo! E meno ancora mi piace l’idea che voi altri, personaggi che diffondete il sapere, che decidete cosa noi da questa parte della barricata vogliamo o non vogliamo sentire, abbiate plasmato l’informazione su questa visione distorta dell’essere umano: se “la gente vuole sentire questo” è perché questo è quello che le proponete costantemente, perché non c’è alternativa da così tanto tempo, che nessuno la cerca più.

In un film che mi è piaciuto molto c’è un dialogo, un rapido e concitato scambio di battute, che mi è rimasto in testa:
- La gente è così assetata, che in mancanza dell’acqua beve la sabbia.
- No, la gente beve la sabbia, perché non capisce la differenza.
Ed è così vero. Ma c’è un assunto fondamentale, che dovremmo ricordarci sempre:
la gente impara, se gliene si dà la possibilità.