Da piccola volevo fare la principessa, ma i miei genitori dicevano che non avrei mai potuto esserlo, perché principessa si nasce ed io non lo nacqui.
L’idea di diventare una principessa per contratto matrimoniale, come Cenerentola, non ha mai preso piede: sarà che quando ero bambina io, i principi erano Carlo e direi basta, dato che di quelli giovani non andava ancora di moda parlarne e alcuni dovevano ancora nascere.
Così da un po’ meno piccola volevo fare l’artista di circo: trapezista, per la precisione. Ma i miei genitori dicevano che non avrei mai potuto esserlo, perché artisti di circo si nasce ed io non lo nacqui.
Il pensiero di frequentare una scuola non mi ha mai sfiorato, per il semplice fatto che nessuno mi aveva mai detto che esistessero delle scuole apposta.
Poi da non proprio più piccolissima volevo fare l’eroina coi superpoteri, ma i miei genitori dicevano che non avrei mai potuto esserlo, perché coi superpoteri si nasce ed io, non lo nacqui.
A cercare un ragno radioattivo, un meteorite, un costume alieno e della polvere di fata ci ho anche provato, ma che posso dire: se l’erano già presi tutti Peter Parker, I Fantastici 4, Ralph Super Maxi Eroe e quell’altro che non vuole mai diventare grande.
E così, in un crescendo di strade impraticabili, di sogni stroncati sul nascere al primo impatto con la dura realtà delle cose, al culmine delle mie illusioni giovanili, da adolescente volevo fare l’insegnante. Ma insegnanti si nasce fuori dall’Italia, ed io…
(Poi i genitori hanno il coraggio di muovere obiezioni, quando lo psicanalista dei figli arriva alla solita conclusione: che tutti i problemi che gli eredi hanno, glieli hanno causati loro).
Ad ogni modo, non volevo parlarvi di quelle che sono state le mie aspirazioni di bambina, bensì sottolineare quelle che non lo sono state: non ho mai desiderato diventare un’astronauta - nonostante il mio nome avesse dei notevoli predecessori nel settore - né la ballerina, né la cantante (questo credo solo per non sentirmi dire che con la bella voce ci si nasce ed essere così costretta ad ammettere che io, purtroppo, eccetera), né la giornalista. Il che è strano, perché nel mio immaginario la giornalista rientrava nella categoria eroina con superpoteri: una donna coraggiosa che smascherava i cattivi e proteggeva gli indifesi, che s’immergeva nelle situazioni più pericolose, guidata dal sacro fuoco della giustizia e della verità.
Così alla fine i miei studi e le mie esperienze sia lavorative, che di svago, li ho condotti intorno a quel nucleo centrale, che è una delle esigenze fondamentali dell’essere umano: la comunicazione. Sì, in altre lingue e attraverso lo studio di altre culture, ma questo non è una divagazione dal tema centrale, bensì un valore aggiunto, un’estensione di questo fulcro, di quel bisogno comune che è comunicare agli altri la nostra esistenza, per poter dire a più persone possibili “ci sono anch’io, guardami!”.
Ho sostenuto gli altri nei loro piccoli momenti di consolazione ed autogratificazione (sono stata commessa in gelateria); ho ascoltato individui, abituati solo ad essere sentiti (ho lavorato come assistente turistica); ho aiutato persone a vedere, persone che prima guardavano soltanto (sono stata insegnante); ho contribuito a far respirare gente, che fino a poco prima si limitava a boccheggiare (sono stata scrittrice). Finché non ho più avuto la possibilità di essere nulla.
Per molto tempo (sono disoccupata).
Solo allora è successo che qualcuno mi invitasse a considerare l’idea che, forse, quell’eroina portatrice di verità e buon esempio, che combatteva i nemici con la penna, come nel più tradizionale dei detti popolari, be’ forse quell’eroina avrei potuto essere io. Così, di punto in bianco:
“vuoi provare a fare la giornalista?”.
Non mi è bastato il fortissimo senso di disagio che ho provato nel momento in cui mi è stata fatta questa proposta, per capire quel semplice fatto: non fa per me. O meglio, non me lo sono fatta bastare apposta, il fortissimo senso di disagio che ho provato nel momento in cui mi è stata fatta questa proposta, per capire quel semplicissimo fatto: non fa per me.
Credo che sia stato il ricordo della vocina dei miei genitori, il loro “non puoi fare questo, perché…” di quando ero piccola, che mi precludeva l’accesso ai miei sogni più splendenti, che si sia fatto sentire in quel momento, portandomi per reazione ad ignorare quel fortissimo senso di disagio e quel semplicissimo fatto. Oppure l’eco di quella stessa vocina, che mano a mano che crescevo era diventata “non puoi non fare questo, perché…”.
(Perché poi da una parte di dicono che non puoi fare, mentre dall’altra ti dicono che non puoi rinunciare. Dopodiché si offendono, quando lo psicanalista dice che tutto è nato da loro).
Così mi sono buttata alla ricerca dei nemici della verità e della giustizia, con la mia potentissima arma sferografica nella borsetta.
E quale luogo migliore per incontrarne, se non un pubblico ufficio? Gli uffici pubblici sono notoriamente covo dei cattivi della peggior specie: i cattivi cattivissimi, pronti a gettarsi sulle povere vittime, aggirandole con l’astuzia e finendole con la malvagità, senza pietà. Peggio degli uffici pubblici, ci sono solo il Gatto e la Volpe.
Quante volte siete stati vittime di code infinite all’ufficio postale, di attese sfiancanti alle asl, di ore interminabili all’Inps? Troppe. Le segnalazioni di abusi sono così numerose, che anche un’eroina alle prime armi come me, con quel senso di disagio che non se ne va, può trovare il suo anti-eroe da affrontare.
E avevo visto giusto, perché in quel piccolo nuovissimo ufficio di paese sembrava che nulla funzionasse: le porte dei diversi specialisti erano state costruite in modo tale che gli utenti in attesa del proprio turno, ma per servizi diversi, si ammassassero gli un sugli altri in un limbo indistinto; il display luminoso, che avrebbe dovuto avvisare che finalmente tocca a te, sì proprio a te, laggiù, numero 75! non funzionava, né esisteva altoparlante, per supplire a questo malfunzionamento; per i pagamenti elettronici mancavano i collegamenti: solo contanti; gli orari non erano segnalati; nessuno conosceva i numeri di telefono del centralino o degli interni (neppure i dipendenti) e non c’erano ingressi che davvero soddisfacessero i criteri per i portatori di handicap. Ho anche cercato un cestino - un gettacarte, una sputacchiera - ma invano.
Insomma, uno sfacelo: tutti i mali del Paese sembravano essersi dati appuntamento lì. Lì dove c’erano anche loro, le vittime: i poveri indifesi, costretti a sottostare, inermi, alle ingiurie di quei cattivi cattivissimi. Parlavano, gridavano, si lamentavano, così frustrati e impotenti, che mi aspettavo di vederlo arrivare da un momento all’altro, quel Caron dimonio, con occhi di bragia, a batter col remo qualunque s’adagia.
E tutti avevano qualcosa da dire, tutti cercavano i miei occhi per poter condividere il proprio disappunto, la propria indignazione: ognuno con una storia da raccontare, ciascuno desideroso di un sostegno, di un riconoscimento.
E allora ho sfoderato la mia arma, la mia penna al servizio della giustizia, per cominciare a dare voce agli inermi, per dare anche a loro la possibilità di urlare al mondo intero il proprio io non ci sto.
“Sono una giornalista” mi usciva con fatica e mi sentivo decisamente di più Julia Roberts, che Erin Brockovich, ma sono sempre stata brava, a recitare e quella frase davvero sortiva un effetto, seppur pronunciata con latente disagio: come se anziché annunciare una professione, io avessi detto per il potere di Grayskull! o cristallo di luna, vieni a me!
Sortiva un effetto, quella frase, ma non era esattamente quello che mi sarei aspettata: passi che non era quello che da bambina immaginavo avrebbero avuto i miei indifesi, nel vedermi arrivare volando, pronta a liberarli dal mostro che li opprimeva, ma non era neppure quello che mi ero immaginata nell’uscire di casa mezz’ora prima, perché magari non avrei fatto il mio ingresso volando, ma sicuramente sarei stata lì per liberarli dal mostro che li opprimeva! L’unico effetto che la mia arma luccicante pareva avere, era quello di un cerotto: un bavaglio, un ddl sulle intercettazioni, un post-it sulle bocche dei miei inermi. Silenzio improvviso. Un silenzio assordante, un ossimoro da manuale. Quel “sono una giornalista” non aveva funzionato solo come la manopola del volume di uno stereo: aveva direttamente spento l’interruttore della percezione dell’ingiustizia subìta. Insomma, di colpo i miei oppressi non si sentivano più oppressi.
-Ma tutta questa confusione, non dicevate che era lesiva della privacy?
-No, anzi: stiamo tutti insieme così passiamo il tempo.
-Ma lamentavate che non si sentiva nulla, che così si rischia di perdere il turno.
-No, no: basta tendere l’orecchio.
-Ma i lunghissimi tempi di attesa, Lei è qui da tre ore, raccontava.
-Eh, ma bisogna capire: ci sono pochi sportelli.
Sono ritornata in quell’ufficio nuovo per una settimana e per una settimana ho preso parte alla medesima pantomima: stessa bolgia, stesse urla, stessi silenzi. Una settimana. Finché non mi sono stancata.
“Innocenti e vicoli bui: ma non imparano mai?”, recitava una scena di un telefilm che non ricordo. No, non imparano mai: gli innocenti s’infilano nei vicoli bui perché scelgono di essere innocenti e si lasciano cadere volontariamente in situazioni pericolose, al solo scopo di potersi poi lamentare; per scaricare sempre su altri colpe che sono solo loro. Perché è più facile: è più facile lamentarsi, farsi compatire, piuttosto che sforzarsi di evitare i pericoli o adoperarsi per metterci una luce, nel vicolo buio.
E ho rivalutato Metroman, l’eroe che si prende bonariamente gioco del “cittadino qualunque” perché lo sa, che il cittadino qualunque non imparerà mai a salvarsi da solo; l’eroe che finge di morire, perché è stanco che gli altri si aspettino da lui che risolva tutti i loro problemi, mentre loro non fanno che guardare e gridare.
E mi convinco sempre di più, che nella lotta tra gli uomini di X e gli altri, alla fine quello che ha davvero ragione, è solo Magneto.