lunedì 16 gennaio 2012

Colloquiando

Quando semini richieste di lavoro nel raggio di mille miglia e a 360 gradi tutto intorno a te, al ritmo di cinquanta al mese,  tra candidature spontanee e risposte a richieste in corso, corri il serio rischio di dimenticare a chi hai mostrato la tua disponibilità ed il tuo profilo. Non che sia un rischio tale da implicare conseguenze troppo preoccupanti, intendiamoci –tranne forse quella volta che mi ha telefonato un tizio di sera, sostenendo di chiamare da New York, di aver ricevuto i miei dati dalla famosa ditta tal dei tali presso cui avevo fatto domanda mesi prima, che mi ha illusa con gloriose prospettive professionali di giri del mondo e stipendio astronomico, per finire poi a molestarmi nel più ingegnoso dei modi. No, il rischio concreto è che quando una delle aziende a cui ti sei rivolto ti contatta, oltre a causarti un principio d’infarto perché non sei abituato ad avere la benché minima risposta da parte di nessuno, non hai assolutamente la più pallida idea di chi cavolo sia la persona al di là della cornetta e per quale misteriosa figura professionale ti eri reso disponibile.

- Pronto, la signora Clara?
- S-sì…?
- Buonasera, sono Loretta e La chiamo per il curriculum che ci ha mandato.
- (Cara Loretta, capisco benissimo che per te, dalla tua postazione calda d’inverno e fresca d’estate, col tuo temperamatite a batteria sulla scrivania, la foto del fidanzato che ti sorride – al lato del temperamatite se è gnocco, da dentro il cassetto se è cesso- il desktop col tuo gatto che dorme e la barretta dietetica nella borsetta, tu non abbia pensieri che verso la ditta che sfama te, il gatto e, se non sei tra le più fortunate, pure il fidanzato ma io, incassata in quel solco anatomicamente perfetto –a forma di chiappe- che s’è formato nel centro del divano da cui invio e-mail e lecco francobolli, non riesco davvero a capire chi tu sia, per conto di chi stai chiamando e cosa vuoi da me. Potresti essere –se ti riesce- un po’ più comprensiva o quantomeno specifica?) Ah, sì, certo! Mi dica, Loretta, mi dica pure.
- Abbiamo ricevuto il suo cv e vorremmo, se Lei è ancora disponibile, vederla per conoscerci meglio. È disponibile ad un incontro? Diciamo il 5 del mese prossimo, alle ore 14:30 presso l’Hotel Bellavista?
- (Se riesco a disincastrare i glutei ormai piagati dalla tana che si sono scavati negli anni) certamente, Loretta, certamente.
- Allora ci vediamo il 5. A presto. Click.
- A presto, Loretta, a presto. E io ancora non so chi diamine tu fossi e cosa diavolo volessi da me.

C’è poi anche da dire che io, quelli che organizzano i colloqui negli alberghi li schifo per partito preso: vuoi perché ho sempre il sospetto che alla fine cercheranno di venderti una batteria di pentole, vuoi per pregressa esperienza personale di situazioni in cui ti offrono posti di lavoro a costo zero –per loro- di quelli di rappresentanza e vendita, che ti mettono a disposizione un kit iniziale –che devi pagare- e che ti mandano allo sbaraglio in giro per la regione –ma anche oltre, se ti va- in cerca di clienti, dopo un corso intensivo di due giorni –a Canicattì non rimborsato- in cui ti istruiscono con nozioni fondamentali tipo “il nostro prodotto si vende praticamente da solo, infatti tu fondamentalmente non ci servi, perciò non ti paghiamo”, “se non vendi, non contribuisci attivamente al bene dell’azienda, perciò non ti paghiamo” e “noi siamo una grande famiglia, lavorare con noi è un piacere, perciò non ti paghiamo”. Ah, dimenticavo l’incubo da telefilm-anticrimine-dipendente della trappola mortale della coppia di gemelle serial killer appassionate di camere d’albergo: “Ciao, Clara. Vieni a giocare con noi? Vieni a giocare con noi, Clara? Per sempre…per sempre…per sempre”.

Nonostante tutto avere un colloquio è un’esperienza eccitante: intanto è un evento raro, come una cometa, l’allineamento dei pianeti, un uomo che riesce a scovare da solo il cassetto dei calzini; poi è un modo per mettersi alla prova, cosa che a un disoccupato cronico non capita sovente; infine è l’occasione per usare quel tailleur, che avevi comprato in uno slancio di ottimismo la prima volta che avevi spedito un curriculum, mentre cercando di toglierti dalla lingua il sapore disgustoso della colla sulla busta, ti immaginavi seduto alla scrivania del tuo ufficio, impegnato in una fitta conversazione all’interfono con la tua segretaria, per spiegarle come preferivi il caffè.

Assorbita da queste elucubrazioni, arriva il 5 del mese; arrivano le 14:30; arrivo all’Hotel Bellavista. E insieme a me arrivano altre sei ragazze: una dimostra qualche anno più di me e indossa il suo tailleur; le altre cinque sono decisamente più giovani, della generazione dei jeans a vita rasoterra, che si siedono irrigidite forse per la tensione, forse per il tessuto che sta tentando di spremerle fuori, forse perché sanno che mi stanno mostrando molta più carne di quanta ne vorrei vedere.
Ci raggruppiamo: occhiate, saluti, sei qui per il colloquio? Sì, anch’io, chissà… e scopro che lo sanno tutte: lo sanno, che è un colloquio collettivo. Loro. E fingendo di non essere sorpresa, mi chiedo se sappiano anche cosa sia un colloquio collettivo. E inizio a fantasticare su quelle convention da film hollywoodiano, quelle scene col guru sul palco e sotto il pubblico invasato che si accapiglia; le cene di Natale di quelle grandi multinazionali statunitensi, in cui il Senior Manager è una specie di papà per tutti, che sceglie il figlio prediletto, il dipendente dell’anno, tra i vari fratelli e sorelle che adesso si sorridono, ma hanno passato tutti trecentosessantaquattro i giorni precedenti a tentare di farsi le scarpe a vicenda; oppure anche, non so perché, mi viene in mente il canile, con tutti quegli occhioni tristi, che osservano speranzosi il futuro padrone di uno solo di loro, supplicandolo di sollevarli dalla loro misera condizione, di dar loro una possibilità per dimostrare quanto valgono, quanto sapranno essere fedeli, affettuosi, affidabili e sempre pronti a leccarlo.

Non sono gabbie, le postazioni che ci hanno riservato, bensì banchi disposti a ferro di cavallo, come a scuola. Ed entra la psicologa dell’azienda che saluta, si presenta (non è Loretta) e inizia spiegandoci che questo non è che il primo di tre colloqui: solo poche fortunate passeranno le rigida selezione per arrivare al secondo, ancora meno approderanno al terzo dopodiché ne resterà solo una. Highlander.
E le altre lo sanno già tutte: lo sanno già tutte, loro, che questo incontro durerà tre ore. Quasi come il tema della maturità.
Prosegue la psicologa e presenta l’azienda; poi presenta la mansione per cui ci siamo candidate; presenta l’iter che porterà la sopravvissuta da questo primo colloquio all’apertura della nuova sede in cui si svolgerà la mansione di cui sopra e, infine, illustra come si svolgeranno le successive tre lunghissime ore insieme.
E intanto io penso che è passata mezz’ora e mancano altre cinque mezz’ore e vuoi la scenografia, vuoi l’atteggiamento delle presenti, mi sento sempre più a scuola, durante la spiegazione che prelude all’interrogazione e io non ho più l’età per certe cose, essere l’interrogata, dopo aver insegnato –seppur senza fissa destinazione- per anni.

Non so come sia passata la mezza mezz’ora successiva, non prestavo attenzione alle parole, persa nell’attenta osservazione dei volti e degli atteggiamenti, delle facce stralunate delle candidate: apprensive, impaurite, tese, che non facevano che accrescere la mia sensazione di disagio. Che diavolo ci faccio io qui? Queste hanno paura sul serio: giudicano, si sentono giudicate, si lasciano giudicare. La psicologa spiega e valuta a un tempo, le ragazze sono lì come i cani del canile, mentre io mi sento così lontana da tutto questo, così oltre.

Qualcosa ha riportato la mia attenzione al senso dell’udito, che stavo totalmente trascurando: dev’essere stata la parola test: “adesso incominceremo con i test”, credo abbia detto. I test mi interessano, una volta stabilito che non ho proprio intenzione alcuna di partecipare al gioco del padrone e del randagio, ma che il mio scopo è la pura osservazione delle dinamiche che mi circondano. E poi non faccio un test dagli ultimi esami scritti che ho sostenuto in Università e parliamo di dieci anni fa: la cosa mi diverte. Matita sul tavolo, fogli girati faccia sotto, ecco cosa dobbiamo fare: la colonna di sinistra mostra una seria di cinque coppie alfanumeriche, una delle quali è sottolineata; la colonna di destra mostra le stesse combinazioni, ma in ordine diverso: evidenziare con una croce sulla colonna di destra, la combinazione che sulla colonna di sinistra è stata sottolineate. Abbiamo tre minuti. Tre minuti per copiare una cosa da un foglio all’altro. La psicologa spiega che questo test verifica velocità ed accuratezza. Nonché la conoscenza di tutte e ventisei le lettere dell’alfabeto e dei numeri da 0 a 9, che non è poca cosa, a mio modesto parere.
A proposito: questo test si ripete due volte. Così, per essere certi che la prima non sia stata solo fortuna.
Comunque credo che mi sia andata bene, anche se non vorrei peccare di immodestia. Sempre che l’immodestia sia un peccato (dio, se mi capita un test di religione sono finita).

Seconda parte, nuovo test, nuovi fogli a faccia in giù, stessa matita: si tratta dei quiz di “intelligenza astratta”. Intelligenza astratta, intelligenza astratta. Continuo a ripeterlo mentalmente e c’è qualcosa che stona, ma non ho tempo per tentare di capire cosa sia, perché io li odio, i test di intelligenza astratta: una sequenza di quattro forme –triangolo, quadrato, cerchio, neri, bianchi, frecce, destra, sinistra, alto, basso-, trova la quinta che segue logicamente le prime quattro, in venti minuti. Come fa una forma a seguire logicamente un’altra forma? Ma chi lo dice che dopo un triangolo, un cerchio, un quadrato e un poligono, venga un triangolo anziché un poligono diverso o un pallino nero o un dito medio? Perché dopo una sequenza di quattro si deve ricominciare daccapo? Dove sta scritto che non si possa invece andare avanti, non so, magari con una bella freccia verso l’infinito e oltre? Io ho il terrore di quelli che rispondono correttamente a queste domande; davvero, mi spaventano. Non so se mi inquietino di più loro o quelli che si trovano ad ideare simili prove, stabilendo che debbano effettivamente esistere risposte giuste e sbagliate, sulla base di schemi mentali costruiti a priori ed instillati pazientemente nelle nostre menti in centinaia di anni, allo scopo di poterle meglio controllare e manomettere a piacimento.

Venti minuti di attacco mentale al pensare comune dopo, matita giù, altri fogli, altro test. Tale e quale al precedente. Anche questo per verificare che le risposte distribuite a casaccio prima, siano effettivamente state distribuite a casaccio. In altri venti minuti.

Terza parte della prova, l’ultima per quanto riguarda la fase scritta del colloquio (che nel frattempo tutte ci siamo dimenticate che si tratta di un colloquio): lo psico-test. O psycho-test, a seconda del risultato: nessun limite di tempo, questa volta, per rispondere “il più onestamente possibile” e “possibilmente senza pensarci troppo” ad un protocollo di domande di inquadramento caratteriale tipo “ti capita di arrabbiarti spesso?” o “la vita ti sembra dura?”. Risulta subito evidente a tutte che, per dimostrare che non sei un aspirante suicida, né un serial killer in erba, sia meglio rispondere SÌ, SEMPRE alla domanda “porti a termine quanto ti sei prefissato, anche se incappi in una difficoltà” e NO, MAI quando ti chiedono “provi il desiderio di vivisezionare il gatto di tua sorella (o tua sorella)?”.

Cento domande imbecilli dopo, è l’ora della pausa. Serve caffeina, per affrontare quella che ci viene annunciata come la quarta ed ultima fase del incontro: la chiacchierata su chi siamo e perché siamo qui. Ho resistito alla tentazione di giocare a unisci i puntini con le coppie alfanumeriche del primo quiz; ho tenuto duro imponendomi di non disegnare orpelli osceni alle forme dell’intelligenza astratta; ho frenato il desiderio di riempire il protocollo del test della personalità con la scritta il mattino ha l’oro in bocca il mattino ha l’oro in bocca il mattino ha l’oro in bocca il mattino ha l’oro in bocca e una domanda mi assilla, mentre mescolo lo zucchero: riuscirò ad occultare il mio rigetto per l’omologazione e la massificazione dei cervelli e degli animi? Non trovo una risposta, troppo concentrata sul mio odio per questi del bar dell’hotel, che due euro e cinquanta per un cappuccino, stramaledetti ladri!

“Ciao, sono Silvia, ho ventidue anni e lavoro come pettinatrice di barboncini. Ho fatto domanda per questo posto perché lavorare in questo negozio fai-da-te è il mio sogno: io ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci. Un mio pregio e un mio difetto? Be’, pregio è che sono molto attenta, difetto è che sono molto puntigliosa. Lavoro bene in gruppo, non voglio prevalere sugli altri e sono espansiva. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci”.

“Ciao, sono Francesca, ho venticinque anni e lavoro come assistente sociale. Ho fatto domanda per questo posto perché lavorare in questo negozio fai-da-te è il mio sogno: io ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci. Un mio pregio e un mio difetto? Be’, pregio è che sono molto attenta, difetto è che sono molto puntigliosa. Lavoro bene in gruppo, non voglio prevalere sugli altri e sono espansiva. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci”.

“Ciao, sono Gabriella, ho trentasette anni e lavoro come ho studiato da make-up artist di gatti da mostra. Ho fatto domanda per questo posto perché lavorare in questo negozio fai-da-te è il mio sogno: io ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci. Un mio pregio e un mio difetto? Be’, pregio è che sono molto attenta, difetto è che sono molto puntigliosa. Lavoro bene in gruppo, non voglio prevalere sugli altri e sono espansiva. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci”.

“Ciao, sono Miriana, ho ventisei anni e lavoro come commessa in un negozio di intimo per criceti. Ho fatto domanda per questo posto perché lavorare in questo negozio fai-da-te è il mio sogno: io ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci. Un mio pregio e un mio difetto? Be’, pregio è che sono molto attenta, difetto è che sono molto puntigliosa. Lavoro bene in gruppo, non voglio prevalere sugli altri e sono espansiva. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci”.

(Sì, ve le faccio sorbire proprio tutte: che deve toccare solo a me, questo strazio? Un minimo di solidarietà, che diamine!).

“Ciao, sono Maria, ho ventiquattro anni e ho lavorato per il censimento. Ho fatto domanda per questo posto perché lavorare in questo negozio fai-da-te è il mio sogno: io ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci. Un mio pregio e un mio difetto? Be’, pregio è che sono molto attenta, difetto è che sono molto puntigliosa. Lavoro bene in gruppo, non voglio prevalere sugli altri e sono espansiva. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci”.

“Ciao, sono Francesca, ho venticinque anni e lavoro come assistente sociale. Ho fatto domanda per questo posto perché lavorare in questo negozio fai-da-te è il mio sogno: io ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci. Un mio pregio e un mio difetto? Be’, pregio è che sono molto attenta, difetto è che sono molto puntigliosa. Lavoro bene in gruppo, non voglio prevalere sugli altri e sono espansiva. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché ADOOORO il bricolage. Infatti ho la casa piena di mobili, soprammobili e luci”.

“Ciao, mi chiamo Clara, ho trentatré anni e sono disoccupata. Ho fatto domanda per questo posto per lo stesso motivo per cui l’ho fatta per gli altri millecinquecentoventisei posti: perché sono disoccupata. Io adoro scrivere e disegnare. Infatti ho un blog e la casa piena di fogli e matite. Un mio pregio e un mio difetto? Sono consapevole. Lavoro bene in gruppo, se il gruppo è una massa omologata e riconosce la mia superiorità oppure se il gruppo è di miei simili, quindi ognuno si autogestisce e si confronta, senza giudicare l’altro. Perché l’azienda dovrebbe scegliere me? Perché sono brava.”

L’azienda ha passato al secondo colloquio sei delle sette persone che hanno preso parte al primo. Che fortuna ha avuto: tutte ADOOORANO il bricolage.

lunedì 9 gennaio 2012

Sul giornalismo (parte prima)

- Vedi (ti do del tu, dammi del tu) a noi interessano le persone: qualcuno che abbia un vissuto particolare, ma con cui gli altri possano identificarsi.
Principalmente la nostra attenzione va alle persone: una storia che gli altri vogliano sentire, capisci?
Noi vogliamo occuparci delle persone, che abbiano alle spalle esperienze significative, che i lettori possano sentire vicine, mi sono spiegato?
Adesso vai, prova, buttati!

-  Dunque, intorno all’ora dell’uscita dalle scuole superiori, per la tratta dal capoluogo a dove abito io hanno messo altre due corse dell’autobus, oltre a quella prevista: la prima è così piena, che salta le fermate; la seconda li raccoglie tutti, ma i ragazzi viaggiano in piedi attaccati alle porte e sono costretti a tenere i finestrini aperti con qualunque tempo, perché non c’è aria a sufficienza per tutti;  la terza è sempre vuota e si chiama “corsa blu” per il colore del bus, che è antidiluviano: l’interno puzza costantemente di gas di scarico, come se ci fossero delle perdite, e i sedili sono letteralmente a pezzi, tanto che la gomma piuma è costantemente esposta ed i rivestimenti in pelle fatiscenti. Vede, insomma, assolutamente anti-igienica.

-  (dammi del tu) Qualcuno si è ammalato gravemente?

- Non che io sappia.

- Allora non è una notizia.

- Ma sono per lo più ragazzi, che vivono questo disservizio quotidianamente per anni. Sono persone. Con esperienze.

- Ma qualche ragazzo sta male?

- A volte, forse, ma non so. No.

- Allora non è una notizia. Che altro?

- Mh. Ultimamente  ho notato un fiorire di mamme di età diverse che, vedendosi precluso il mondo del lavoro, si inventano una professione, basata esclusivamente sul proprio estro creativo e  sull’esigenza di gestire il proprio tempo, secondo il bisogno personale: chi a costo zero, utilizzando materiali di riciclo, chi dando fondo agli scatoloni nella cantina della nonna, altre con mezzi più specialistici, uniscono fantasia e manualità per creare oggetti di artigianato, che poi vendono come Opere dell’Ingegno, sfruttando le possibilità comunicative della rete. Insomma, capisce, escluse a priori dalla sempre più ristretta cerchia di chi ha uno stipendio, si sono rimboccate le maniche cercando di guadagnare attraverso ciò che producono, gestendo in autonomia il tempo e gli spazi professionali.

- (dammi del tu) E allora?

- Allora… sono persone. Che hanno una storia. Con cui il lettore si può identificare.

- Ma sono state maltrattate?

- Non mi risulta, non credo, no.

- Allora non è una notizia.

- Ma sono persone. Una storia.

- Qualcuno le picchia?

- Non me l’hanno detto, no.

-Allora non è una notizia.

-…

- Poi?

- Ci sarebbe un centro d’accoglienza profughi, dove vivo io. Sono una decina di profughi di Lampedusa, due dei quali –padre e figlia- sono rifugiati politici. In Libia erano prigionieri politici, hanno vissuto in carcere e sono riusciti a fuggire durante le prime rivolte. La bimba va a scuola, si e integrata subito, ha imparato la lingua in due settimane, è stata data in affido a due famiglie locali. Pensavo, visto quello che è successo a Firenze, che potrei scrivere di come vivono qui, che rapporto hanno con la cittadinanza.

-  Ma sono stati maltrattati?

- Qui? No.

- Allora non è una notizia.

- Ma sono persone! Sia i profughi che i cittadini. Persone, vissuto. Ha sentito della bimba!

- (dammi del tu) Qualcuno la picchia?

- No!

- Allora non è una notizia. Altro?

- Ci sarebbe la storia del direttore di quel quotidiano, che la ragazza va a cercare persone, storie: il direttore chiede, lei gira, intervista, trova storie e persone.
Se TU ti alzi dalla scrivania e TU vieni un attimo più vicino a me, questa diventa una notizia.

martedì 3 gennaio 2012

Diario

Il giorno del mio diciottesimo compleanno non ricevetti molti regali, ma me ne sarei ricordato solo uno.

In verità molti regali non li ho ricevuti mai, tuttavia non era una cosa che mi facesse sentire  a disagio, neppure da bambino: quello che arrivava, arrivava ed io ero felice perché sono sempre stato un entusiasta. Gioivo dei compleanni degli altri, delle torte degli altri, dei giocattoli degli altri, esattamente come gioivo dei miei: una gioia piena, calda e confortevole, che mi portavo dentro ed era per me più appagante di qualunque pacco, con qualunque fiocco.

Ma il giorno del mio diciottesimo compleanno, avessi anche ricevuto in dono l’auto, il cane, il giro del mondo, la luna, il sole e tutte le stelle, non mi avrebbero cambiato la vita come quell’unico regalo di cui ho memoria: il diario di mia madre.

Sono sempre stata pigra, amore mio. Tanto pigra che ho comprato questo quaderno appena ho saputo di essere incinta, ma gli presento la penna per la prima volta solo adesso, mentre tu riposi sazio e pulito nella culla accanto a me.
Pazienza comunque, ché lo scopo non era una cronaca della mia gravidanza conato per conato, né le memorie della tua infanzia pannolino per pannolino. No, da queste pagine, che spero di avere la costanza di riempire, vorrei la complicità che mi occorre per scriverti di me. Vorrei lasciarti qui le mie esperienze di donna, vorrei che tu mi potessi conoscere per quella parte di me che sono quando non sono la tua mamma, quella parte di me che tu, dati i ruoli che abbiamo l’uno nella vita dell’altra, non vorrai vedere e che io vorrò tenerti nascosta. E lo vorrei perché tu, un giorno, possa avere di me, della mia vita e delle mie scelte, un’idea più completa che ti permetta di vivere con maggiore consapevolezza te stesso, la tua vita e le tue scelte.”

Diciotto anni. La prima visione che ebbi, appena colte le parole “mamma” e “donna” nella stessa frase, mi traumatizzò talmente che non andai oltre quelle prime righe per i due anni successivi. E se non fosse stato per Annalisa chissà, forse ne sarebbero passati altri due o altri quattro o il diario sarebbe ancora chiuso nella sua scatola beige assieme alla prima ecografia –io, lungo 5 cm: ho sempre avuto il terrore che i miei amici mi vedessero in quello stato-, all’adesivo identificativo della nursery, al mio ultimo ciuccio ed ai miei denti da latte. Tutti, i miei denti da latte. Ma Annalisa mi aveva lasciato dopo sei anni che stavamo insieme: la prima ragazza che avevo tenuto per mano, la prima che avevo portato al cinema con i miei soldi –tre settimane di sudata paghetta più due lavate di piatti e un diecimeno di tema di italiano-, la prima che avevo baciato e la prima, la prima e basta. E la mamma ci aveva provato, a consolarmi, ma io la odiavo perché a lei Annalisa non era mai piaciuta: lei voleva ch’io uscissi con gli amici, che vedessi altra gente, e non capiva ch’io volevo stare con Annalisa sempre e allora come poteva, come poteva capire il dolore che stavo provando? E Marco capiva, forse, ma non era mio padre e aveva da fare con Andrea, che stava per prendere la specializzazione, e con Emma, che era piccola, e loro sì, loro potevano chiamarlo papà e io stavo soffrendo troppo, per aspettare il mio turno, dopo di loro.

Così ripresi il diario. Forse più per un senso di sfida: “voglio proprio vedere, adesso, come puoi aiutarmi, mamma. Voglio proprio vedere.”

E fu lì tra quelle pagine, fissato in un corsivo svelto, ma attento, con l’inchiostro viola sui fogli bianchi, che lo ritrovai. Era proprio lui: il mio papà. Ma non era esattamente lui, perché era un papà-uomo ed io lo sentii subito, che mi sarebbe piaciuto ancora meno di una mamma-donna.

Come fa tanto affetto a diventare odio? E tanti sogni a diventare incubi? Tante speranze a diventare prigione? Sarebbe bastato così poco: che mi avesse ascoltata invece di limitarsi a sentirmi, che mi avesse vista, invece di accontentarsi di guardarmi, che mi avesse conosciuta, invece di inventarmi.”

Io mi sono sempre ricordato tutto, sempre, tanto che mia madre per un po’ aveva creduto ch’io avrei avuto una memoria eidetica anche da adulto, quando invece era solo un’ottima memoria, unita ad una sincera curiosità ed al mio frizzante entusiasmo –il tutto ereditato da lei. Non avevo quindi dimenticato i toni freddi e sprezzanti, le parole prepotenti, gli sguardi rancorosi; non avevo dimenticato quell’istinto di protezione, quel mio frappormi tra loro in difesa della mia mamma (la mia mamma-donna) e non avevo dimenticato le lacrime, le lacrime degli adulti, che mi pungevano gli occhi, la gola ed il cuore, perché per un bambino gli adulti non devono piangere mai.

 “Sono così addolorata, amore mio, così vuota, senza forma, senza senso, cieca e sorda e fredda: l’unico calore che sento è quello bollente delle lacrime e l’unico suono che riesco a far uscire è quello squassante dei singhiozzi. Ti guardo giocare e lo so, che la tua vita sta per cambiare drasticamente e non sarà facile e non sarà bello e non l’avrai scelto tu e potrai solo subirlo, ma non torno sui miei passi: questa è la mia strada, questa sono io e non posso, non voglio far finta di nulla, come la maggior parte della gente intorno; non ho intenzione di annullarmi, di recitare, di soffocarmi. Non ti auguro il mio doloroso percorso, amore, ma il mio desiderio per te è che anche tu decida della tua vita in modo da restare sempre fedele a te stesso, anche nelle tue contraddizioni: che non accetti compromessi e sacrifici, per qualcuno che solo perché non sa volare, ti lega le ali e ti ancora a terra; qualcuno che crede di volerti, ma non ti accetta per quello che sei.”

Non avevo dimenticato, ma non avevo mai capito. E non avevo mai perdonato. È una lacerazione continua, una ferita che non si rimargina mai, come due lembi che non possono essere ricuciti, perché mantenuti sempre tirati, sempre distanti: l’amore di figlio e la rabbia di figlio: amo mio papà, perché è mio papà, ma lo odio perché si è fatto lasciare dalla mamma; amo la mia mamma, perché è la mia mamma, ma la odio perché ha lasciato il mio papà. E odio tutti i grandi, perché decidono sempre tutto loro e decidono anche per me, cose che io non voglio: non voglio mangiare la verdura, non voglio andare a scuola oggi, non voglio prendere la medicina, non voglio vivere in due case.
Almeno la mamma sta sempre con me, perché per fortuna non lavora. Ma lei non è contenta e io non capisco: non sei contenta di stare sempre con me, mamma? Sì, amore, sono contenta, ma sai abbiamo bisogno di soldini e se non lavoro non possiamo fare le cose che vorremmo. Io, mamma, vorrei suonare la chitarra e vorrei fare calcio. E vorrei andare a mangiare al ristorante. Ecco, vedi? Queste cose costano e noi non possiamo farle.

Sono stanca, amore mio, tanto stanca. Io non so quanto ci sia di tuo malessere, in questa situazione, e quanto invece del mio, ma è diventato tutto così pesante, che io mi sento scomparire. Mi guardo intorno e ovunque vedo cose che tu non puoi avere, cose che io non ti posso dare: i tuoi amici con i vestiti nuovi, le scarpe nuove, le matite sempre lunghe, la wii, il ds; i tuoi amici che vanno in vacanza, i tuoi amici che fanno le feste di compleanno, i tuoi amici che fanno tutte le attività che l’uomo ha creato, in questa società folle. E tu li guardi e sei felice per loro, col tuo entusiasmo fresco e sincero, che per me è sempre più un dolore; e poi guardi me e mi dici che vorresti anche tu quelle scarpe, quel gioco, quella vacanza, mamma me li prendi, me li prendi mamma, quando saranno in offerta?

Puoi chiedere i soldini a papà, mamma. Il papà non ce li dà, i soldini, amore mio, non ce li dà.

E poi vedo lui, che non vuole stare con te il sabato, perché preferisce perdersi tra un outlet ed un centro commerciale; vedo lui con la sua auto nuova, lui con le sue cene ed i suoi fine settimana impegnati, lui con la sua playstation ed i mobili dell’antiquario e non ho la forza di dire nulla. E mi sento una pessima madre, perché tutto quello che io non pretendo e che è tuo di diritto, è un torto che faccio a te; e mi sento una pessima persona, perché anziché affrontare i problemi, fingo che non ci siano e lascio che mi seppelliscano sempre di più; e mi sento un pessimo esempio, perché cedo il passo alla paura e chino il capo all’insicurezza. E mi sento sola.  Da tre anni.
Da tutta la vita.
Non ce la faccio più.”

E non capivo perché papà d’un tratto avesse smesso di entrare in casa, quando veniva a prendermi; non capivo perché non potevo più parlare di te, né perché i nonni, invece, di te dicessero tutte quelle brutte cose; non capivo perché papà e Luciana litigassero sempre, ma lei non mi veniva da mettermi in mezzo per difenderla, perché non mi piaceva come sgridava il mio papà. E non capivo perché lei non mi accompagnasse più al parco, perché non mi comprasse più peluche, né perché non ci fosse più il dolce, quando mangiavo da loro e poi, alla fine, non potevo nemmeno più dire “loro”, perché lei non c’era mai.

L’ho fatto: gli ho parlato, gli ho detto tutto. Ho smesso di cedere il passo ad abbassare lo sguardo: ci sono anch’io, adesso, e ho il diritto di passare, come tutti gli altri.
Ancora non capisco come potesse non sapere: “non lo sapevo”, diceva lui, “non lo sapevo”. Non lo sapeva, che un figlio mangia e si lava e si veste e va a scuola e gioca e si ammala e vive, e che vivere in questo mondo costa: ogni respiro, ogni boccone, ogni stagione; non lo sapeva che era ingiusto, che della vita di questo bambino che avevamo fatto in due non se ne occupasse anche lui; non lo sapeva che io sola e senza uno stipendio, i soldi me li dovevo inventare ora dopo ora, settimana dopo settimana; non lo sapeva che un giudice aveva scritto, siglato e registrato che fosse anche lui ad assumersi le responsabilità di questa vita creata insieme . Non lo sapeva e non gli è bastato che glielo dicessi io, no: ha dovuto chiedere ad un avvocato, ha dovuto farselo spiegare da una sentenza, ha dovuto farselo intimare da un pignoramento. E ha dovuto perdere i suoi diritti, per non volersi occupare dei suoi doveri. Ha dovuto fare così, così perché io potessi  sentirmi  più in colpa di prima, così perché’io potessi continuare a sentirmi male, sempre e comunque e nonostante tutto. Ma ho il diritto di passare, adesso, e non mi tiro più indietro.
 Così fai calcio e studi la chitarra, non hai la wii, ma possiamo andare al cinema, e siamo andati al luna-park e in montagna e hai sempre le matite lunghe e non fa niente, se ti viene l’influenza e devi fare la visita per gli occhiali.
La vita è per i forti, almeno questo niente può cambiarlo: la vita è per i forti e io voglio che tu possa essere forte, amore mio. Voglio che tu capisca, che tu comprenda, che  impari e che accetti.”

Ricordo che poi papà è andato via, a vivere su dai nonni, e mi ero abituato a vederlo meno. E poi non è venuto per tanto tempo e tu mi hai detto che aveva deciso di andare lontano. Ancora più lontano. Così lontano che non sarebbe più tornato.

Il giorno del mio diciottesimo compleanno mia madre mi ha regalato i pezzi mancanti nel puzzle della mia vita: non ho ancora compreso, anche se comincio a capire e sto imparando; è lì ed è finito: ognuno dei miei millecinquecento pezzi si trova esattamente dove deve stare ed io posso andare guardarlo ogni volta che ne ho bisogno, nell’attesa che un giorno, oltre a vedere il mio quadro nella sua interezza, io possa scorgere la figura ben più grande, completa, di cui esso non è che uno dei tanti miliardi di pezzi.

La vita è per i forti.”