giovedì 21 febbraio 2013
Concorsone, bell'animalone
Allora, il concorsone: la prova scritta per gli insegnanti d'inglese.
Entro in questa scuola (un liceo artistico dalle titaniche dimensioni e che dei Titani ha fatto la medesima fine) e cerco l'aula che mi è stata assegnata. Una volta dentro mi scelgo un posto (in fretta, perché i nomi sulla porta sono 21 e i banchi 19): gli ultimi arrivati faranno il gioco delle sedie) e, ovviamente, mi becco quello col grosso buco al centro. Vabbè, sono in tempo per scivolare con estrema nonchalance verso quello accanto, un attimo prima che vi si segga un'altra concorrente. Sì, perché sulle direttive del ministero non siamo candidati, ma nel rigore etimologico più estremo siamo "concorrenti". E infatti sembra di sentire i discorsi del dietro-le-quinte di un quiz a premi, uscire dalle docenti bocche di precari quindecennali, che si lamentano di come sia "un'ingiustizia che noi dobbiamo sostenere tutto l'esame in inglese", perché "ma cosa credono che siamo?" e "cosa pretendono da noi?", fino alla perla di quella che "a noi dovevano darci più tempo che agli altri, almeno il doppio, perché noi prima pensiamo la risposta in italiano e poi dobbiamo tradurla"; per terminare con i commenti a caldo a test concluso, quando rimostranze corali si alzano, per protestare per il fatto che "ma dovevano dirlo prima, che queste domande servivano per verificare solo la conoscenza della lingua e non la capacità d'insegnarla: non è giusto!". Non è giusto...
Quindi ricapitoliamo: un intero istituto farcito d'insegnanti d'inglese, che hanno problemi a rispondere a quattro domande nella lingua che insegnano e che ancora fanno il passaggio mentale dall'italiano all'inglese, anziché pensare direttamente in inglese. Io ci sogno, in inglese! E non lo dico per darmi delle inutili arie, ma perché in tutta Europa, per legge per insegnare una lingua straniera, al docente è richiesta una padronanza della lingua tale per cui ALMENO si sia in grado di pensare in quella lingua. Che poi non è neppure un'abilità, ma un processo psico-linguistico automatico che scatta quando si raggiunge una determinata conoscenza.
E invece è questa, la gente deputata all'arduo compito di far imparare l'inglese ai vostri figli: gente che non ha capito che se ci sono una prova scritta da sostenere in lingua e poi una orale, che consiste nella simulazione di una lezione (sempre in lingua), non solo le capacità didattiche saranno valutate in quest'ultima, ma l'importanza attribuita alla padronanza della lingua è molto alta. Almeno in teoria. E se la commissione che valuterà i compiti sarà composta da colleghi di pari livello, questa gente continuerà ad istruire i nostri figli e i figli dei nostri figli a tempo indeterminato.
Sì, è un post autoreferenziale, questo, perché io sono invece maledettamente brava e altrettanto maledettamente disoccupata cronica, perché della mia bravura fottecazzi a chiunque. Perché se, come ho potuto constatare, è vero che "chi sa sa fa, chi non sa insegna", allora che qualcuno me la dia, la possibilità di fare!
martedì 12 febbraio 2013
Fumata Tutta
Ci vuole molta più forza ad ammettere con se stessi e di fronte agli altri di non essere in grado di svolgere il compito che ci siamo accollati, di quanta ce ne voglia per tentare di nascondere – a se stessi e agli altri – che siamo arrivati ad un momento della nostra vita in cui la bilancia su cui posano da un lato le energie che possiamo impiegare per fare ciò che ci si aspetta da noi e, dall’altro, il risultato che ci si aspetta da noi, pende più o meno decisamente a favore del secondo piatto.
Perché dobbiamo riuscire a tutti i costi? Perché fare un passo indietro, cambiare direzione o semplicemente stare fermi è considerata una bruciante sconfitta? Perché sconfitta? Qual era il premio, in caso di vittoria? Gloria, riconoscimento, denaro? Gloria agli occhi di quelli che sperano sempre e costantemente in un nostro fallimento, perché solo così riescono a non pensare al fatto che considerano la propria vita un fallimento? Riconoscimento di fronte a chi cerca sempre il confronto, per potersi illudere che aver fatto meglio di noi permetta loro di scampare, ancora una volta, a quella vocina dentro che dice che comunque anche quel “meglio” non è mai abbastanza? Denaro, per poter restare all’interno del cerchio di schiavitù all’inessenziale di cui esso stesso è causa ed effetto? Ah, no, è soddisfazione personale, giusto? Il senso di aver compiuto fino in fondo il nostro dovere, che forgia il carattere, e chi se ne fotte se stiamo male e soffriamo, se ci usiamo violenza, se andiamo contro a ciò che vogliamo fare, dire ed essere, e che altro non è, se non un debole tentativo di dimostrare al solito giudice interiore (le rielaborazioni delle voci di genitori, professori, bulletti di scuola) che valiamo di più quanto creda, molto di più di quel poco che invece sempre ci dice che valiamo.
Quanta debolezza, quanta tristezza, quanta inconsapevolezza, vedo in questi giorni: schernire un vecchio, che ha avuto il coraggio di dire “Non ce la faccio, cazzo, io non ce la faccio” davanti al mondo intero. Davanti al mondo intero. Infilare, girare, rigirare ancora e ancora miliardi di coltelli nella piaga di un uomo di ottant’anni che ha ammesso “Non ho sufficiente energia per rappresentare Dio in Terra”. Riuscite per una frazione di secondo ad essere consapevoli delle vostre azioni, spettatori attenti dei vostri pensieri, sinceri con voi stessi quel tanto da permettervi di riconoscere che dietro a questo vostro farvi beffe di una tale grandezza di spirito non c’è altro che la vostra invidia? Invidia nei confronti di un uomo che ha avuto il coraggio di scrollarsi di dosso il peso di una vita che non riusciva più a sostenere. Avete presente quando siete presi dalle vostre preoccupazioni di lavoro, soldi, figli, compagni e arriva puntuale quello che vi dice che comunque il suo lavoro è più difficile, i suoi problemi economici più gravi, i suoi figli più problematici, il suo compagno più rompicoglioni? Ecco, certe volte “quello” siete proprio voi. Oh, sì, Ratzinger aveva vestiti d’oro, gioielli, servitori, ammiratori, non doveva pensare a far la spesa, rifarsi il letto, pulire casa, ma questi sono i vostri riferimenti, la vostra vita, i vostri fardelli e il loro fastidio lo conoscete solo voi: il suo fardello lo portava lui e solo lui ne conosceva il peso, e quanto questo peso gli gravasse sulle spalle. E sì, certo, non è finito in mezzo a una strada, non ha l’Imu da pagare, una famiglia da mantenere, ma questi sono i vostri vincoli, le vostre schiavitù: solo lui potrà sapere quali conseguenze dovrà affrontare, quali scotti pagherà per questo gesto e quanto tutto gli sarà greve.
Io non sono Cattolica, né religiosa in generale: non sono neppure battezzata, quindi se volete catalogarmi come la classica fedele che difende i suoi pastori a spada tratta fatelo pure, ma niente sarebbe più lontano dl vero. Io credo in una forza creatrice che non possiamo concepire, cui tantomeno possiamo dare un nome; e credo che quella forza creatrice sia presente in ogni forma di energia, dal minerale alla pulsar, passando per la balena e l’uomo; credo che la forza traboccante da cui proveniamo, di cui siamo fatti, e a cui – un giorno – torneremo, non ci origini per farci scontare chissà quali colpe, farci superare chissà quali prove, farci comprendere chissà quali inarrivabili verità, ma solo perché non può farne a meno. Insomma, che siamo come macchie di sugo su una camicia, schizzate via perché gli spaghetti ne erano carichi: abbiamo forme diverse, diverse dimensioni, ma fatte dello stesso pomodoro. Io credo che l’unica verità siamo noi - ognuno per sé e poi altro da sé e, infine, oltre a sé - e che l’unico modo per scorgere tutto, sia per prima cosa scorgere noi stessi (forma, dimensione, pomodoro) e non possiamo farlo, se non ci permettiamo di ammettere cosa fa per noi e cosa semplicemente no.
Siamo infelici quando non stiamo facendo ciò che vogliamo fare; abbiamo tanti desideri quando non sappiamo cos’è che davvero desideriamo; non abbiamo scelta quando abbiamo paura di agire; vediamo troppe strade aperte davanti a noi quando non sappiamo dove vogliamo andare.
Iscriviti a:
Commenti (Atom)